«A lungo gli storici hanno ignorato l’importanza delle malattie infettive come attori della storia».

                                                                                                                                  Laura Spinney

 

   Nel luglio del 1989, subito dopo i fatti di piazza Tien an Men, ebbi l’opportunità di andare in Cina insieme a Paolo Turco, un compagno della mia stessa organizzazione internazionalista, per un viaggio offerto dal governo cinese a varie agenzie di viaggio per dimostrare che in quel paese regnava la tranquillità e che le famose rivolte degli “studenti” erano state sconfitte «con quattro scappellotti» come disse il sindaco di Pechino presente al pranzo ufficiale, offerto in nostro onore, nel più grande albergo di Pechino. Quel viaggio mi si scolpì nella memoria, perché

avevo desiderato per oltre 20 anni di andare nel paese di Mao, del libretto rosso, delle Comuni e del «fuoco sul quartier generale», e dopo solo due giorni avremmo voluto rientrare immediatamente in Italia. In due settimane visitammo, in un pazzesco tour de force (si scendeva da un aereo e si saliva su un treno, poi su un pullman) Hong Kong, Shanghai, Guangzhau, Wuan, Lanzou, Xian,  per ultimo Pechino, da cui partimmo per rientrare finalmente in Italia. 

   Che impressione riportammo? Di un immenso cantiere, di una società entusiasta al punto da apparire nevrotica, di un popolo che non credeva ai propri occhi per i livelli di sviluppo e di benessere che andava costruendo, e – soprattutto – un’aria umida e appiccicaticcia, irrespirabile nel vero senso della parola. D’accordo che eravamo in luglio, ma la peggiore afa estiva delle nostre città era aria d’alta quota rispetto a quella che si respirava nelle metropoli cinesi in quei giorni.  

   Insieme al mio compagno potemmo cogliere in quei giorni gli effetti del motto di Deng Xiao Ping che si era imposto in modo definitivo: «non importa se il gatto è rosso o nero, l’importante che prende i topi». Addio Comuni, addio sviluppo armonioso tra città e campagna. La Cina si era involata decisamente verso l’economia di mercato, accettando la sfida e puntando a recuperare il tempo perduto ed a superare i livelli di sviluppo intensivo degli occidentali. 

   Ecco, quell’aria irrespirabile di 30 anni prima mi è tornata in mente alla notizia della comparsa del coronavirus.

   Ai frettolosi lettori raccomando prudenza nei giudizi, siamo di fronte a una questione molto più seria di quanto si voglia far credere.  

   Scrive Laura Spinney  ne L’influenza spagnola, un libro che consigliamo di leggere: «se in generale determinare l’origine e la direzione della diffusione di una pandemia influenzale è complicato, nel caso di una del passato lo è ancora di più. E quindi, ogni affermazione categorica sull’argomento dev’essere presa con cautela. Questo è vero soprattutto dalla fine dell’Ottocento, cioè da quando gli europei, i cui connazionali nei secoli precedenti avevano portato malattie letali nel Nuovo Mondo, si sono convinti che ogni nuova epidemia provenga dalla Cina o dagli spazi silenziosi delle steppe eurasiatiche». 

   E aggiunge:

«Fu il secolo della rivoluzione industriale, a cui si accompagnò la rapida espansione delle città in molte parti del mondo. Le città diventarono terreni di coltura ideali per le malattie di massa, tanto che le popolazioni urbane avevano bisogno dell’afflusso costante di persone sane provenienti dalle campagne per controbilanciare le perdite dovute alle infezioni».  

   Premettendo che sono un analfabeta in fatto di medicina, di istologia e di virologia, cerco di approcciare la questione che sta terrorizzando – questo sì vero terrore e terrorismo – il mondo intero per il coronavirus con le armi dell’intuito e facendo i conti della serva, ponendo questa semplice domanda: se la Cina ha impiegato poco più di 30 anni per raggiungere gli stessi livelli di sviluppo intensivo che l’Europa e gli Usa hanno raggiunto in oltre 200 anni, in una realtà ad altissima densità abitativa e con la velocità della luce, cosa ci si doveva aspettare?  Avrebbe detto Totò: «È la somma che fa il totale». Il virus è servito. È un virus cinese? Con quale coraggio? Solo un modo per esprimere la stupidità dei tifosi del capitalismo. Non siamo ipocriti e meschini.

   È l’effetto di un modo di produzione che partito dall’Europa si è imposto in tutto il mondo e in ultimo mostra i caratteri peggiori della sua esistenza.  Scrive la Spinney: «Nel Cinquecento iniziò l’età delle scoperte. Gli europei avevano cominciato ad arrivare per mare nel Nuovo Mondo, portando con sé malattie per le quali le popolazioni locali non avevano alcuna immunità».  

   I primi casi in Italia? Nelle regioni del nord, ovvero in quelle più ricche e che hanno avuto di riflesso i maggiori rapporti economici e commerciali con la Cina. Ecco il boomerang. E tu ca te credive cach’era? disse Nino Taranto, nei panni del furbo e corrotto finanziere arricchitosi, a Totò che rappresentava l’integerrimo poliziotto, nel film Totò e i quattro del 1963.

   Come si reagisce contro il virus “cinese”? Da occidentali: con lo sgomento, con la voglia di rivalsa contro il paese del dragone che minaccia importanti quote di mercato, e con la necessità di non allarmare troppo per evitare ricadute pericolose sulla “nostra” economia. Insomma un vero e proprio terremoto provocato da un microrganismo dal peso ben oltre il milionesimo di grammo. Altrimenti detto: tu uomo, grande e grosso, tu che affermi: «cogito ergo sum», ti fai fregare da un agente così piccolo e misterioso? Dove allora alberga la tua potenza di uomo pensante? 

   Le domande che si pongono gli addetti ai lavori e quelli del mondo della “informazione” sono quelle del dopo, cioè in che modo si propaga piuttosto che affrontare la prima domanda: come si è prodotto?. È a questa che bisognerebbe rispondere e che invece viene rimossa per il semplice motivo che bisognerebbe mettere in discussione l’insieme di in modo di produzione che ci si ostina a non voler affrontare e che si avvia inesorabilmente verso la catastrofe generale. È questo il punto. 

   Basta leggere quello che scrivono alcuni scienziati, come per esempio il fisico Carlo Rovelli: «L’emergenza ambientale è grave.  Abbiamo già cominciato a subirne avvisaglie con danni ingenti e morti causati da ondate di calore, mega-incendi, inondazioni in regioni costiere, siccità, problemi per la pesca, uragani, riduzione delle risorse idriche, e altro. Ma i dati indicano che la situazione si aggraverà». A fronte di tale gravità il nostro scienziato propone una ricetta miserabile: «Il valore del Green Deal europeo è centrato sull’idea di trasformare la sfida ambientale in opportunità anche economica. Non è presentato come limite alla crescita ma come una nuova strategia di crescita». 

   In questa strategia di crescita proposta da un’autorevole voce del vecchio continente si inseriscono ovviamente anche i piani di sviluppo della nuova crescita asiatica. Sicché isolare Wuhan e costruire ospedali in 20 giorni è un metodo che risponde a quella espressione napoletana che dice: ciacca e mereca, ovvero ferire e medicare in un processo che si riproduce all’infinito. Ecco la logica dell’uomo moderno che continua a riconoscersi nel modo di produzione capitalistico ed è incapace di affrontare quello che lui stesso ha prodotto. Insomma curare il cancro con la tubercolosi.

   Mettiamo subito in chiaro che le sorti dell’umanità non stanno nelle mani degli scienziati, perché essi obbediscono a ruoli che i rapporti economici fra gli uomini impongono. La scienza non è neutrale, non lo può essere per il semplice motivo che non c’è uno scontro fra due contendenti. La scienza obbedisce a un meccanismo oggettivo e impersonale, quale il modo di produzione capitalistico. La sua cultura non è, come pensava Marx, la cultura della classe al potere, ma del meccanismo dominante dell’accumulazione che fa pavoneggiare una “classe”. Quelli che cullano il sogno di affidarsi alla “scienza” rincorrono quello che scrive Carlo Rovelli, cioè di trasformare la sfida ambientale in una nuova opportunità di crescita economica. Diceva Pazzaglia, comico napoletano in “Quelli della notte”: «il livello [di intelligenza] rasenta la terra» e gli scienziati sono limitati a capire le cause delle cose perché essi stessi sono espressione di quelle cause, ovvero di quel meccanismo infernale che indirizza la ricerca sempre verso una nuova opportunità economica con l’unica finalità obbligata: il profitto. Ecco perché non possono essere in grado di analizzare la causa delle cose e si lanciano sempre verso soluzioni che hanno come base il profitto e tutto quello che ciò comporta. 

   Isolare le tre regioni colpite in Italia dopo l’isolamento di Wuhan in Cina? Ecco l’impotenza dell’uomo che rincorre quello che lui stesso inconsciamente ha creato. 

   Tanto per fare un esempio, la gravità dei problemi ha innalzato in cima al mondo la figura di una ragazza sedicenne come Greta Thunberg, espressione dell’ansia e delle preoccupazioni delle nuove generazioni. Le risposte che l’establishment capitalistico mondiale, in primis quello degli Usa e di tutti gli altri a seguire, vanno nella direzione di quello che dice il fisico Rovelli.

   È del tutto evidente che le parti si completano. Ed è altrettanto evidente il fatto che finché reggerà il modo di produzione capitalistico si tenterà di risolvere ogni problema in modo capitalistico, in che altro modo sennò? La stessa cosiddetta borghesia, vista la gravità della situazione, comincia a misurare la propria impotenza e riconoscere che i soliti strumenti sono limitati. Si comincia cioè a interrogare nel tentativo di dare una risposta, ma dà la propria risposta, quella di Rovelli, perché per sua essenza non può dare nessun’altra risposta che quella che rincorre il profitto. Perché l’unica e vera risposta andrebbe ricercata nella messa in discussione di un modo di produzione che ha causato già troppi danni, è quella che abolirebbe la sua ragion d’essere con tutto l’armamentario sin qui costruito a ogni livello. 

   Il punto è proprio questo: se non si smantellano dalle radici le cause di un fenomeno, esso si riproduce sempre con le stesse caratteristiche procedendo di male in peggio ed aggravando all’infinito le condizioni di tutto il pianeta.

   La domanda che va posta è: in che modo si può estirpare dalle radici un movimento storico come il modo di produzione capitalistico nel quale miliardi di persone si sono riconosciute?

   Qui bisogna essere chiari e onesti: l’ipotesi marxiana del Manifesto, del passaggio rivoluzionario dei mezzi di produzione da una classe all’altra, si è dimostrata infondata nella sua essenza per una ragione molto semplice: il capitalismo non è potere di una classe su un’altra, che rappresenta l’effetto, ma la relazione fra classi rispetto ai mezzi di produzione. Qual è però il merito di Marx e del comunismo? Quello di aver posto il problema di fondo: o l’umanità si costituisce in comunità per organizzare una società armoniosa con le altre specie della natura oppure il modo di produzione capitalistico, ovvero l’applicazione massima del principio dell’homo homini lupus, condurrà l’uomo alla catastrofe totale. 

   Sarebbe fallito il comunismo perché alcune esperienze che ad esso si richiamavano sono “fallite”? No, la questione, in buona o cattiva fede, è posta male, perché quelle esperienze tentarono di rispondere centralizzando le loro risorse per non essere travolti da un movimento impetuoso che partito dall’Europa avanzava in tutto il mondo. Non era possibile opporre a un movimento storico di tale portata nessun modello alternativo, e se ancora oggi in Cina sventola la falce e il martello sulle bandiere e il partito di governo si definisce comunista, vuol dire che siamo in presenza di una clamorosa menzogna storica, teorica, politica e pratica. Poveri noi che ci siamo illusi in quegli anni sulla possibilità di uno sviluppo equilibrato città-campagna predicato da Mao. 

   Questo non vuol dire che ovunque il capitalismo è uguale, ma ovunque risponde agli stessi principi dell’accumulazione anche se in certi paesi, come in Cina, cerca di correggere alcuni tratti esasperati del liberalismo con la spina sanguinante di Hong Kong nel fianco, e molti occhi attenti al suo interno. Ma proprio il coronavirus è la dimostrazione della impossibilità di sviluppare un capitalismo diverso come certuni si illudono: il capitalismo o è o non è.

   Il coronavirus non ci è pervenuto da un altro pianeta, ma è l’effetto di un modo di produrre merci, mezzi di produzione e consumo con un’unica finalità, il profitto. Se si inquinano monti, mari, laghi e fiumi, se si surriscalda il pianeta e si sciolgono i ghiacciai come può pretendere l’uomo di rimanere immune? Per quale strana ragione si può pretendere che non si sviluppino virus, che non si propaghino e minino la salute dell’uomo? A queste domande non si può rispondere con la tesi che la natura ha sempre prodotto malattie per l’uomo. A questo argomento risponde ancora Laura Spinney col suo libro che è un pugno nello stomaco dell’homo capitalisticus: «In tutti i conflitti del XVIII e del XIX secolo si sono avute più vittime a causa delle malattie che sul campo di battaglia».

   Certo, l’uomo ha anche dimostrato che di fronte a tragedie della natura è capace di mettere in campo straordinarie risorse, eroismo, generosità e abnegazione, ma il punto è proprio questo: perché dopo e non prima?  Perché si comporta da bestia prima e da eroe dopo?        

   Si dirà: ma è il prezzo del progresso, e sia, ma un prezzo altissimo. Ci dovrebbe essere, come in natura, un limite a tutto, e invece l’uomo si sta dimostrando così scemo da non riuscire a correggere quello che ha prodotto proprio perché non riesce a superare l’homo homini lupus e costituirsi come unica grande comunità abitante questo pianeta. 

   La tesi dell’implosione del moto-modo di produzione capitalistico che ricavo dal Capitale di Marx, da L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg, da Il crollo del capitalismo di Henry Grossmann, da Il capitalismo ha i secoli contati, di Giorgio Ruffolo, e in ultimo da Fabio Vighi in Crisi di valore, che da anni vado riproponendo, non solo non viene smentita dagli eventi in arrivo dalla Cina, ma non vorrei che  l’implosione del modo di produzione capitalistico fosse   veramente causata – come scrive Laura Spinney -  da una malattia influenzale capace di concludere tragicamente sua la storia. Perché, giusto per parafrasare Epicuro sulla morte, rispetto a certi virus abitiamo una città senza mura, come la storia ha sinora dimostrato. 

   «Chi ha orecchie per intendere, intenda!», diceva il Cristo.

 

Michele Castaldo, febbraio 2020  

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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