Mettiamo subito le cose in chiaro: chi si dovesse chiedere se il Movimento dei forconi sia di destra o di sinistra, sarebbe fuori strada. Per capire la natura di qualsiasi movimento sociale bisogna sempre analizzare le cause materiali che lo hanno prodotto e la prospettiva nella quale esso si inserisce.

Si tratta di ceto medio produttivo e non: piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, autotrasportatori, commercianti e cosi via che strozzati dalle banche, dai grandi monopoli, dai grandi gruppi finanziari, dai grandi centri di distribuzione ecc. ecc. vengono buttati sul lastrico in quanto attività economiche, unitamente  alle loro famiglie. Si  tratta di un movimento anticapitalista, seppure i “soggetti” in campo sono individualmente capitalisti, per una semplice ragione: in una fase di capitalismo ascendente, i piccoli capitalisti sono conservatori e reazionari, tendono all’arricchimento in una prospettiva generale di crescita del capitalismo; in una fase discendente dell’accumulazione del capitale in quanto Sistema Mondiale, imboccano la strada dell’insubordinazione e alimentano il caos che ne favorisce ulteriormente la crisi. Erano – per certi aspetti – conservatori e reazionari i contadini in Russia nel 1905 e nel 1917 sia rispetto alla rivoluzione proletaria che rispetto all’accumulazione del capitale che aveva la necessità di centralizzare le risorse per sviluppare il capitalismo industriale e mettersi al pari con le altre potenze economiche che crescevano a ritmi vertiginosi. Furono – sempre i contadini russi – rivoluzionari rispetto all’apparato autocratico dello stato zarista. Volevano crescere come accumulatori e furono stroncati sul nascere in modo particolare i più piccoli. Scrive R. Luxemburg: << La riforma agraria di Lenin ha creato nella campagna un nuovo e potente strato popolare di nemici del socialismo, la cui resistenza sarà molto più pericolosa e tenace di quella dei grandi proprietari aristocratici>>. Come darle torto alla luce dei fatti storici?

 

Oggi, tanto gli autotrasportatori quanto la piccola azienda industriale, agricola o commerciale è soffocata dai gangli del mercato finanziario e dai grandi gruppi monopolistici. Non hanno nessuna possibilità di riprendersi in quanto a settori e categorie, sono destinati al fallimento, nonostante che negli ultimi 20/30 anni hanno usufruito di mano d’opera a buon mercato per l’immigrazione dall’Est europeo e una relativa pace sociale dovuta alla sonnolenza della classe operaia che si è cullata sugli allori di quanto aveva precedentemente guadagnato sia dal punto di vista economico che normativo. E’ da qui che è partito il primo vero e grande distacco generazionale nei confronti del nuovo proletariato, soprattutto per quanto riguarda quello di prima immigrazione. La  rivolta dei ceti che confluiscono nel movimento dei forconi è rivoluzionaria perché va ad alimentare quel caos sociale nemico giurato dell’accumulazione di questa fase. Che gli autotrasportatori o altre categorie manifestino con la bandiera nazionale non vuol dir nulla (tra l’altro lo hanno fatto e tuttora lo fanno anche gli operai), le loro idee contano ancor meno. E’ la loro azione ad essere rivoluzionaria, in quanto tale, perché contribuisce a trasportare una intera comunità nazionale – quella avvinghiata  nella complicatissima rete del Sistema del Capitale - verso la catastrofe e siccome il Sistema odierno non funziona per compartimenti stagni, si potrebbe innescare un processo atomico di reazione a catena dagli esiti imprevedibili. Questo è quanto abbiamo dinanzi, non una nuova accumulazione capitalistica mondiale e nazionale così come avvenne nel primo e secondo dopoguerra. Insomma potremmo dire: mentre nel 1917 i contadini russi furono  rivoluzionari e conservatori ad un tempo, oggi le categorie del movimento dei forconi sono conservatori e rivoluzionari al tempo stesso; nel senso che mentre per i primi c’era una prospettiva all’orizzonte per i secondi quella prospettiva è stata bruciata dallo stesso movimento del modo di produzione capitalistico.

Le prime avvisaglie si erano già avute con il movimento leghista oltre venti anni fa, quando gli stessi settori che oggi si mobilitano contro il governo Letta si organizzarono con Bossi il senatur per poi finire in braghe di tela. Si trattava di una illusione che doveva essere bruciata, ovvero la possibilità che appoggiando il liberismo in economia avrebbero avuto salva la pelle. Sono finiti dalla padella alla brace ed oggi, dopo aver tentato con il voto al M5S di risalire la china, sono alla disperazione, sono contro tutto e tutti. E’ esattamente il prodotto di un Sistema in crisi, che non offre nessuna prospettiva ai settori che per secoli ha alimentato.

Diciamola tutta e fino in fondo: il ceto medio, sia produttivo che commerciale, ha vissuto gli ultimi trenta e più anni nell’illusione della bella vita all’infinito  con ville,  suv, vacanze nei paesi esotici, sniffando cocaina e godendo pagando la carne fresca della prostituzione giovanile proveniente dall’Est Europeo. Non poteva durare a lungo, la crisi dello stesso Sistema che li ha illusi li sta bruscamente e drammaticamente risvegliando e li sta ponendo di fronte ad una realtà che mai potevano immaginare di dover vivere: i monopoli che li bruciano nella concorrenza e le banche che succhiano loro di interesse in interesse il restante ossigeno necessario alla sopravvivenza. Si stanno mobilitando all’insegna di un antico arnese ormai in disuso dei contadini, il forcone,  proprio a dimostrazione di quanto siano antiquate le loro aspirazioni: il ripristino di uno status quo ante, ovvero di un ritorno all’antico. Che in dette manifestazioni affluiscono giovani e giovanissimi definiti ultras delle tifoserie dagli organi di informazione per discreditarne l’azione non deve meravigliare, resta il fatto che si tratta di una marea montante di malessere che come un fiume in piena si riversa negli alvei casuali che incontra. I giovani, di cui si parla, sono privi di prospettiva allo stesso modo dei settori economici buttati sul lastrico, è perciò ovvio che confluiscano nelle stesse manifestazioni con la stessa rabbia. Dunque fanno benissimo quei gruppi di compagni, circoli e singoli militanti che stanno scendendo in piazza contro il governo e contro le forze repressive dello stato democratico che si fa garante di un Sistema in crisi che colpisce – per tenersi in vita – tutti i settori sociali, compresi quelli che avrebbe dovuto allevare. Essi danno l’indicazione al proletariato tutto di destarsi da uno stato di sonnolenza nel quale è  caduto e di cominciare ad affrontare allo stesso modo di questi settori lo scontro sociale che si va delineando come obbligato dalla crisi.

Il Comunismo materialista addita nel Sistema del Capitale e nella sua crisi la causa dell’impoverimento e della loro disperazione; ne incoraggia l’azione tendente a far dimettere il governo e mandare a casa tutto quel sottobosco politico e sociale annidato nelle istituzioni democratiche dello stato che è proliferato negli anni di vacche grasse. A questo punto molti compagni si potrebbero chiedere: e  dopo? La risposta deve essere in questo modo articolata: c’è innanzitutto un ‘prima’ da capire, solo sulle macerie del ‘prima’ si costruirà il ‘dopo’; in base ai rapporti di forza che si andranno successivamente a determinare fra le classi. A chi troppo si chiede del ‘dopo’ sfugge di capire il ‘prima’, ovvero quello che sta succedendo sotto i nostri occhi. Si tratta di una crisi generale, di Sistema, è l’intero edificio che incomincia a scricchiolare dalle fondamenta. E’ del tutto naturale che quando un sistema si avvia verso il crollo c’è caos, confusione, disordine, un sovrapporsi e intrecciarsi di tendenze e controtendenze ecc. ecc., insomma un magma che strada facendo si connoterà ed assumerà le caratteristiche di un nuovo prodotto sociale oggettivamente determinato. Si tratta del cammino della rivoluzione anticapitalista, non può che essere così come si sta mostrando. Il proletariato non potrà continuare a rintanarsi passivamente nelle fabbriche perché non potrà in alcun modo sottrarsi ad uno scontro antisistema di portata epocale.

Titola la Stampa, quotidiano di Torino della Fiat:  << Forconi, la protesta fa paura! >> A chi fa paura questo tipo di protesta? Fa paura a tutti coloro che si ostinano a difendere un Sistema sociale che fila dritto verso la catastrofe, fa paura a banchieri e grandi monopoli, consorzi di multinazionali, finanzieri e speculatori, fa paura a una cricca di parassiti allevati nelle burocrazie dei partiti. Insomma fa paura – questo tipo di protesta – a chi non subisce al momento i colpi della crisi o che la scarica sui settori che messi alla fame si stanno ribellando.  Scrive Michele Brambilla su La Stampa del 11/12 << Le manifestazioni di questi giorni [….] si tengono con la testa piena (di paura) per una pancia che potrebbe essere presto vuota (di cibo)>>. Ecco la serpe allevata in seno da un Sistema che si riteneva eterno, democratico, progressista, audace, insomma il miglior mondo possibile e che invece come tutti i fenomeni materiali si va esaurendo. Venendo meno le ragioni che li hanno prodotti si avviano inesorabilmente al declino; con i tempi necessari, ma in maniera irreversibile. Insomma abbiamo dinanzi una prospettiva di caos totale, di disordine sociale. Ma nessuna rivoluzione si è mai presentata nella storia come omogenea. Solo gli ingenui possono ipotizzare una rivolta a propria immagine. Le rivoluzioni hanno il loro corso obbligato da fattori storicamente determinati. La rivoluzione in corso di questi anni  ha i suoi connotati di natura capitalistici. Confusa, disordinata, disomogenea, discontinua ecc. ecc., sono i caratteri propri delle rivoluzioni.

Un dettaglio su cui riflettere.

I mezzi di informazione hanno dato ampio risalto al fatto che a Torino alcuni agenti della celere si siano tolti il casco quale gesto di solidarietà e di fraternizzazione con i manifestanti. Si potrebbe essere indotti a notare – così come fanno certi ingenui e schematici compagni - la differenza tra l’agire dei reparti della celere nel 2001 a Genova e questo gesto di Torino per affermare un diverso atteggiamento motivato dal fatto che si tratta di piccoli capitalisti e per questa ragione protetti dalle alte cariche dello stato e degli apparati di polizia. Sarebbe un giudizio molto superficiale che non coglierebbe il segno dei tempi. La polizia è composta di uomini in carne e ossa che rispondono a  impulsi che la società nel suo complesso trasmette loro, non sono macchine, non sono bionici e fiutano l’aria, sanno capire e adeguarsi alle circostanze, insomma sono influenzati anch’essi  dalla crisi di Sistema e offrono il ramoscello d’ulivo togliendosi il casco.  Non si è trattato di <<Un comportamento ordinario collegato al venir meno dei problemi di ordine pubblico>> come si affretta a dichiarare qualche solerte vicequestore per negare l’influenza avuta dalla determinazione di forza dei manifestanti nei confronti dei poliziotti. A Torino il casco lo hanno tolto quando il rapporto di forza si è determinato a loro sfavore.  La massa dei manifestanti – che ha un istinto ferino – dal momento che non intende scontrarsi con la polizia come fine a se stesso, ha applaudito e in un certo qual modo fraternizzato. Questo dimostra quanta strada è stata fatta da quel luglio 2001 in una gelida  Genova ad oggi. Non è una rondine che fa primavera, certo, non si tratta di una inversione di tendenza definitiva, molte altre prove dovranno superare le forze dell’ordine democratico al servizio del capitale, ma quando si apre una crepa è segno che la tenuta generale non è più garantita. Il segnale va colto e non respinto da parte di quanti si richiamano agli interessi degli oppressi senza abbassare la guardia e ritenere le forze repressive dello stato amiche della causa del proletariato. Si tratta di una prima crepa, per arrivare alla frana ce ne vuole.

In ultimo una annotazione di ordine per così dire teorico da parte di chi – come chi scrive – si richiama al materialismo storico e dialettico. Federico Engels nel famoso libro ‘Antidühring’ sostiene che  è l’economia che crea e determina la forza, non viceversa; che la forza prodotta dall’economia viene ad essere utilizzata in maniera concentrata nello stato come guardiano dei rapporti economici esistenti di natura capitalistici. Dunque se rallenta l’economia, si riduce necessariamente la quota di investimenti nel mantenimento della ‘forza’ a guardiano dell’economia stessa.  Non è perciò lo stato che investe meno sulla polizia, ma è l’economia che riducendo la sua crescita riduce la quota parte da far affluire allo stato per il mantenimento della forza necessaria a sorreggerlo. Di conseguenza, i turni “massacranti” dei poliziotti, la mancanza di maggiori mezzi, l’impossibilità di pagare ore straordinarie ecc. ecc. sono l’effetto di minori entrate nelle casse dello stato da parte del volume generale dei rapporti economici in un paese imperialista come l’Italia. Il fatto che il poliziotto si tolga il casco antisommossa di fronte ai manifestanti è la raffigurazione plastica  di un mutato rapporto tra l’economia, la sua forza con lo stato e questo con alcune  classi sociali che impoverite si ribellano e trovano traballanti i poliziotti.

Michelec. 11/12/13

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Da Marx a Marx
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Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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