Sottoponiamo a eventuali lettori una sorta di chiacchierata a ruota libera fra vecchi compagni con esperienze e percorsi diversi che passeggiano nei giardinetti di un quartiere di periferia, senza nulla  pretendere, perché sono più le domande inevase che le risposte che vengono fornite alle questioni poste.

Ci siamo posti reciprocamente le domande alle quali cerchiamo con umiltà e franchezza di rispondere.

 

Brevissima biografia  di:

Salvatore Ricciardi: sono nato nel 1940 in un quartiere popolare di Roma, la Garbatella. Frequento l'istituto tecnico Galileo Galilei e appena diplomato trovo lavoro in un cantiere edile. Partecipo alla rivolta di Porta San Paolo contro il governo Tambroni alleato con i fascisti del Msi. Negli anni 60 entro nelle Ferrovie dello Stato diventando attivista del sindacato Sfi-Cgil. Nel 68-69 la sinistra Cgil, di cui faccio parte, molto forte in ferrovia, si contrappone alle scelte dei vertici, finché nel 1971 esce e forma il Cub ferrovieri che nell'agosto blocca il traffico ferroviario, ottenendo riduzioni d'orario per i lavoro usuranti e altre garanzie. Negli anni 70 partecipo alla costruzione di comitati di base nei posti di lavoro e nei territori. Nel 1977 entro nella colonna romana delle Brigate Rosse. Nel 1980 vengo arrestato. Rimango in carcere per 30 anni, 20 in totale reclusione e 10 in semilibertà.]

e

Michele Castaldo: sono nato nel 1945 in un quartiere poverissimo dell’allora poverissima cittadina agricola di Acerra da genitori braccianti agricoli, quelli che in Russia ancora ai primi del ‘900 chiamavano mugichi, cioè i più poveri fra gli addetti alla campagna. Perdo il mio papà a dieci anni. Lascio la scuola a tredici anni. Cerco faticosamente di darmi da fare per imparare un mestiere e/o lavorare. Mi arrangio in mille modi. Fui colpito dalla morte di Che Ghevara e affascinato dagli echi della rivoluzione culturale cinese nonché del pensiero di Mao Tse-tung. Con lo scoppio dell’autunno caldo fui attratto dalla lotta operaia e studentesca, dalle occupazioni di case e da alcune rivolte di contadini nel sud d’Italia. Aderii da subito ai gruppi marxisti leninisti perché influenzato da un personaggio come Gustavo Herman a Napoli. Mi ritrovai sempre con grande entusiasmo nelle lotte con un ruolo spesso di primo piano. Più volte denunciato e arrestato per blocchi stradali, ferroviari, di cantiere, per adunate sediziose e cosi via. Negli anni 80, insieme ad altri compagni  cominciammo  un percorso di critica allo stalinismo e alla concezione del socialismo in un solo paese. Approdai alla sinistra comunista e al bordighismo. Successivamente ho cominciato un excursus su tutta la storia del movimento operaio e i suoi riflessi nella concezione teorico politica del marxismo. Partecipo a tutte le iniziative che fanno riferimento ai lavoratori in questa fase, specie se immigrati.

 

D. Guardando oggi la realtà sociale in Italia e nel mondo, cosa vi viene immediatamente da pensare rispetto a quella che abbiamo vissuto negli anni 70?

 

R. di Salvatore

Dal punto di vista del conflitto la differenza è notevole. Negli anni 60 e 70 la classe operaia si è alzata in piedi, si è organizzata su contenuti antagonisti nei posti di lavoro, e così il proletariato nei  quartieri popolari nelle grandi città: Roma, Milano, Napoli, Palermo e così via. Oggi assistiamo a occupazioni di case prevalentemente realizzate da immigrati e settori proletari impoveriti. Sono situazioni che per avere prospettive di aggregazione e di sviluppo devono legarsi alle lotte di altri settori, proponendo e dando vita a un movimento in grado di generalizzarsi e radicarsi nei territori a tutto campo. Si stanno sviluppando lotte interessanti tra i lavoratori della logistica, ma anche qui bisogna allargare il percorso di autorganizzazione ad altre situazioni proletarie. Intanto va sperimentata la possibilità di unire, per ora, queste due realtà in movimento, lotta per la casa e lotte della logistica.

 

R. Michele

Che è cambiata totalmente la fase storica, il ciclo di produzione e di accumulazione del capitale. Negli anni settanta si era comunque in una fase mondiale di ascesa dell’accumulazione capitalistica, oggi siamo in presenza di una di regressione, con tutto quello che ciò comporta.

D. Per stare più alle cose minute, la stessa lotta per la casa non vi appare più come un fatto endemico piuttosto che come un’ondata di vera e propria lotta di ampi settori di proletariato?

 

R. di Salvatore

La lotta per la casa c'è sempre stata, negli anni 50 e 60 era gestita dal Pci e da essa prese corpo la costituzione del sindacato Sunia. In questa fase però la lotta per la casa si sta ampliando in maniera interessante, dimostrando la volontà di unirsi ad altri settori in lotta. Comunque anche la lotta per il miglioramento salariale e per la riduzione dell'orario di lavoro c'è sempre stata, a volte il Pci le ha controllate per i suoi scopi, altre volte si sono sottratte al controllo dei riformisti.

 

R. di Michele

Pienamente d’accordo in modo particolare se vogliamo riferirci alle grandi occupazioni di massa a Roma o nel napoletano, come quella di Acerra alla quale il Pci fece seguire la politica delle cooperative immobiliari, fondate sul principio tutto capitalistico della ‘proprietà indivisa’ sul piano individuale, accrescendo continuamente il capitale dell’impero Coop, variamente diversificato,  ma con i dividenti per i maggiori azionisti. Così facendo si indeboliva il movimento proletario che aspirava alla casa popolare e si irretiva la piccola borghesia nell’accumulazione del capitale immobiliare privandola della possibilità dei dividendi.

D. Quali sono oggi le ragioni del Comunismo, in che senso e perché, in virtù di quali fattori si deve poter pensare al Comunismo?

 

R. di Salvatore

Bella domanda. Il comunismo non è oggi chiaramente espresso dal conflitto di classe, come è stato in molti conflitti precedenti, per esempio negli anni 60 e 70. E io da quelle lotte ho imparato ad essere comunista e ancor oggi a quell'ideale mi sento ancorato. Non ho problemi a dire che oggi mi ritrovo in un ideale di comunismo. Ma alla fine degli anni 60 e negli anni 70, il conflitto per l’abolizione del lavoro salariato, per l’abbattimento dello stato del capitale, per la ridefinizione e riduzione della giornata lavorativa, per l'abolizione delle banche e del denaro ecc., quella è stata la migliore università per noi giovani. Oggi  tutto questo non proviene dalle lotte delle masse, estremamente difensive, quando ci sono. Dunque il comunismo rimane oggi come un’aspirazione ideale, ma profondamente legata a pratiche di classe. E comunque è il percorso storico della liberazione degli oppressi e degli sfruttati.

 

R. di Michele

Si deve pensare all’ipotesi di una nuova e diversa organizzazione sociale a partire dalla crisi irreversibile di un modo di produzione e dai riflessi che essa provocherà nelle masse proletarie che si ergeranno a soggetto e porranno le basi per un diverso modo di produrre e di distribuire.

 

D. D’accordo sulle aspirazioni ideali di cui dice Salvatore, ma ideale di chi e perché?

 

R. di Salvatore

Un ideale per quelle e quelli, forse pochi, che ci sentiamo in sintonia con un passato di tentativi rivoluzionari anticapitalisti, lungo oltre 150 anni. Ma anche con le reali possibilità di liberazione dalla sudditanza all'organizzazione del lavoro. Se si vuole liberare gli umani dalla schiavitù del lavoro salariato e se si vuole salvare la terra dalla distruzione c'è solo la strada del comunismo.

 

R. di Michele

La risposta andrebbe così articolata. Le necessità o bisogni delle masse si riflettono in concetti e aspirazioni che assumono forme di idee, cioè volontà di soluzione di quei problemi e di soddisfacimento di quei bisogni. Data però la forza minima che le masse esprimono, resta la volontà delle masse prive di forza e la forza della volontà dei comunisti privi della forza delle masse. Rappresentiamo perciò al tempo stesso il passato e il presente, la nostalgia per la forza che le masse operaie e proletarie seppero mettere in campo un tempo e le necessità inevase delle masse d’oggi espresse in idee,  in rapporto alla debolezza della capacità delle masse.

 

D. Quale è la natura del Comunismo all’interno di un quadro sociale di decomposizione come quello che vediamo avanzare in questa fase in modo particolare in Occidente e nell’immediata periferia mediorientale?

 

R. di Salvatore

In questa fase c’è solo la certezza della decadenza del capitalismo, e non solo nelle democrazie occidentali, che produce abbrutimento della convivenza umana e devastazione e saccheggio ambientale. Ma non voglio fare profezie di imminenti cadute del potere del capitale, previsioni sempre sbagliate. Una cosa è certa: il sistema capitalistico non è riuscito a mantenere le promesse di far vivere in una prospettiva florida grandi masse proletarie e piccolo borghesi. Si è rivelata un'illusione, una grossa menzogna. Bisogna andare oltre!

 

R. di Michele

Si, concordo pienamente, si tratta di un sistema che comincia a mostrare le prime – ma irreversibili – crepe. Una crisi che si prolunga per anni con una decrescita complessiva di tutta l’accumulazione mondiale del capitale rappresenta un fatto nuovo da analizzare bene e vederne i possibili sviluppi.

 

D. Ma allora il Comunismo come risvolto di una crisi generale e irreversibile del capitalismo?

 

R. di Salvatore

Si, quando un sistema socio economico è marcio, si deve costruire un nuovo ordine sociale, ugualitario, libertario e rispettoso dell'ambiente, piuttosto che il caos sociale generale di capitalisti, banchieri e grande finanza, dovuto alla crisi, ormai putrefazione del modo di produzione capitalistico.

 

R. di Michele

Si, un nuovo ordine sociale che non è però prefigurabile all’oggi. Non possiamo cioè ipotizzare in che modo si organizzeranno i nuovi rapporti sociali a partire da una conflagrazione generale. Non è possibile disegnare schemi su come sarà il rapporto tra le diverse industrie, i diversi consigli operai, le diverse categorie, la distribuzione ecc. E’ tutto un divenire o, per dirla con Rosa Luxemburg, è una nebulosa.

 

D. Recentemente è stato pubblicato una sorta di antologia di Cesare Pianciola su Raniero Panzieri. Ma che cos’è secondo voi l’operaismo?

 

R. di Salvatore

Il punto centrale, la grande innovazione di Panzieri, il padre per così dire dell’operaismo, è l’inchiesta operaia, ovvero cercare di capire che cos’è effettivamente la classe operaia: come lavora, come vive, cosa pensa, che rapporto ha col lavoro, con la gerarchia di fabbrica e con l'organizzazione sindacale e partitica. È stata una grande innovazione per portare a galla la verità della coscienza di classe, oltre ogni mito ideologico. Il primo operaismo inoltre ha dato un importante sprone alla critica radicale della “neutralità” della tecnica e della scienza, individuati quali strumenti totalmente al servizio del capitale; così come è stato il rifiuto della “visione apologetica del progresso tecnico-scientifico”. Tutto ciò ha aperto nuove critiche alla produzione capitalistica e ha dato nuovo impulso alla volontà della trasformazione rivoluzionaria. Questi aspetti ci hanno portato molto distante dal Pci e dagli altri riformisti e dai “lavoristi” di scuola moscovita.

 

R. di Michele

Panzieri coglie un aspetto teorico di estremo interesse nel porre il dubbio sul ruolo della classe operaia industriale quale motore della rivoluzione sociale. Si tratta di una questione molto complicata perché investe uno dei capisaldi del Manifesto del partito comunista di Marx e Engels del 1848. Ovviamente l’aver espresso un dubbio non vuol dire aver fornito una diversa  risposta alle loro tesi. Lo stesso Gramsci, se vogliamo, si pose la questione, rispondendo con una domanda piuttosto che con una affermazione, dicendo: è tutto da rifare. Che poi si sia arrivato a dei  paradossi, giustificando l’autonomia del politico nella lotta di classe, è tutt’altra storia.

 

D. Potremmo definirlo come un  dubbio sul ruolo taumaturgico della classe operaia che traspare fin dal  Manifesto di Marx e Engels, ruolo riproposto poi da Lenin e da tutto un filone teorico e politico fino agli anni 70 e ancora oggi da minuscole organizzazioni che a quel filone si richiamano ?

 

R. di Salvatore

Panzieri e l’operaismo prima maniera hanno abbandonato il mito della classe operaia depositaria di un ruolo taumaturgico capace di abbattere il capitale e portare l'umanità in una sorta di paradiso sociale. Così la gran parte dei militanti degli anni 60 e 70. È stata una rottura storica con quelli che avevano scambiato Marx per un profeta. Non abbiamo dato per scontato che gli operai fossero depositari spontaneamente di un'altra cultura e di un'altra visione del mondo. Si è messo al primo posto il conflitto tra operai e capitale, per capire, lì dentro e nel suo sviluppo, il valore politico di quegli scontri e le possibilità insite di una trasformazione sociale. Con la chiarezza che la contraddizione principale è quella capitale/lavoro, ma che la classe operaia non ha in sé la chiarezza della costruzione di un mondo altro. È pur sempre una classe nata nella pancia sporca del capitale.

È un discorso lungo che non si può racchiudere in poche righe. La classe operaia, in alcune situazioni, è stata capace di rompere l'ordine capitalistico e aprire spazi nuovi da riempire con nuove idee di vita collettiva, diversa e alternativa a quella borghese. Una prospettiva nella quale saranno impegnate donne e uomini tutti. In altre situazioni ha invece condiviso i valori borghesi, accettando il suo ruolo subordinato di capitale variabile, e quindi cooperando col capitale per lo sviluppo della produzione. Spesso ha accettato il valore borghese del possesso di merci, misuratore del benessere, anche se in maniera collettiva e ugualitaria. È la storia della classe operaia inglese cui il movimento operaio assegnava compiti decisivi e dei partiti socialdemocratici nord-europei. Quel pseudo-benessere però ha avuto vita breve, le crisi di ristrutturazione capitalistica l'hanno spazzato via.

 

R. di Michele

Ripeto, sia Panzieri che altri hanno posto la questione senza fornire una tesi contrapposta a quella di Marx e Engels. Addirittura Sergio Bologna teorizzò una diversa classe, i camionisti, capace di innescare processi rivoluzionari solo pochi anni dopo che in Cile avevano funto da stura per il colpo di stato di Pinochet. Dunque la questione aperta, rimane aperta, nel senso che il modo di produzione capitalistico non può essere abbattuto da una classe che lo sostituisce con un’altra, ma deve implodere per le sue stesse leggi di funzionamento.

 

D. C’è in Marx – scrive Pianciola – un “nucleo metafisico” produttivo  di conoscenze e di illusioni. […] c’è la riduzione della realtà complessa delle classi lavoratrici a un proletariato idea e alla sua missione storica. Insomma sarebbe sbagliata la tesi di Marx. Che ne pensate?

 

R. Salvatore

Non ho letto il libro di Pianciola, ma conosco Panzieri e non mi pare che abbia mai espresso dubbi sul ruolo centrale della classe operaia nell'abbattere il capitalismo. Ha però combattuto le visioni deterministiche e metafisiche presenti in alcuni “marxismi”, non certo presenti in Marx che non si appoggia a un “nucleo metafisico”. Marx parte da un’analisi sullo stato della classe operaia in Inghilterra – che era a quel tempo la realtà più avanzata da un punto di vista capitalistico – e aggancia la sua elaborazione all’ipotesi che ovunque il capitalismo, nel suo sviluppo, avrebbe ampliato il lavoro salariato al punto tale da spazzare via altri settori fino a realizzare due comparti antagonisti: la borghesia e il proletariato  (Marx dedica all'analisi della classe operaia in Inghilterra il Cap. 24 “La cosiddetta accumulazione originaria” del libro 1° del Capitale). Fatta quella sorta di inchiesta, trovando le ragioni storiche fin dal XIV secolo, si sente autorizzato a pensare che la salarizzazione diffusa e radicale trasformerà i contadini in braccianti salariati, come avvenuto in Inghilterra. Da questa ipotesi trae la conclusione che il proletariato, anche numericamente espanso, ad un certo punto diverrà classe per sé contro il capitale e darà l’assalto alla borghesia, cioè al modo di produzione capitalistico. Ma era il modello inglese ad essere anomalo. Negli altri stati, la borghesia, nel XIX secolo, ha necessità di alleanze e lo fa col settore contadino. Così in Prussia, in Francia ecc., i governi mettono in campo provvedimenti che sostengono l'agricoltura dei contadini piccoli proprietari, ciò era giustificato anche dal sopravvenire di crisi devastanti che rallentarono l'industrializzazione.

 

R. di Michele

E’ inutile stare in mezzo al guado, la questione viene – ripeto – centrata in quanto dubbio da Panzieri, ma il punto cruciale è: esiste un’altra classe o un altro comportamento delle classi sfruttate per abbattere il modo di produzione capitalistico? La risposta – appena abbozzata e confusa se si vuole, ma la più materialistica di concepire la realtà sociale moderna e le sue evoluzioni,  la fornisce Rosa Luxemburg con la teoria del crollo enunciata nel libro L’accumulazione del capitale. I fatti le stanno dando ragione.

La storia ha dimostrato che a partire dall’Inghilterra dalla fine del settecento, e fino ad oggi in tutto il mondo, il proletariato ha puntato sempre ad integrarsi nella società capitalistica e borghese più che a smantellare questo modo di produzione.

Dunque si sbagliavano Marx e Engels nel vedere la classe operaia come una classe che in maniera taumaturgica si sarebbe fatta classe per sé e avrebbe abbattuto il modo di produzione capitalistico e instaurato il socialismo e il comunismo.

 

D. Sorge questa domanda: c’è ancora un ruolo della classe operaia come soggetto aggregante? Insomma è la classe operaia ancora una classe di riferimento? Se si perché, se no perché.

 

R. di Salvatore

Eh, bella domanda. Poniamola così: la classe operaia ha avuto un ruolo di opposizione e in alcuni casi di vero antagonismo inconciliabile con la produzione capitalistica e con la società borghese. In altri casi si è battuta per importanti rivendicazioni, ma complementari alla borghesia (come ho detto  sopra, questo ha fatto la classe op. inglese). Spesso ha dato molte spallate al sistema, a volte per un percorso finalizzato alla propria integrazione nel modo di produzione e nella società, altre volte  per distruggerlo e uscire da esso. Comunque a questa domanda si può rispondere esaurientemente andando a parlare con gli operai e con i proletari. Un'inchiesta vera e di massa, che oggi pochi compagni intendono fare.

 

R. di Michele

Non c’è e non ci potrebbe essere un ruolo predefinito, dovuto alla strutturazione della società capitalistica, così come prima si diceva. Tutto dipende dall’andamento dell’accumulazione capitalistica. Fino ad oggi il proletariato industriale nel suo insieme ha sempre puntato all’integrazione. Le aspirazioni ideali sono il riflesso di una proiezione storica a divenire; in quanto tali non possono costituire un programma organico del modo di organizzare la nuova società.  L’idea di Marx ‘Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni’ è un criterio di orientamento, non può costituire una base programmatica.

 

D. Il ruolo che la classe ha avuto nel corso negli ultimi due secoli si modificherà e in che modo?

 

R. di Salvatore

L'ho già detto, non voglio scambiare la lotta di classe per profezia. Se affermiamo che molte cose sono cambiate, ed è così, l'estensione del lavoro salariato è un fatto. Purché non ci facciamo abbindolare dall'imbroglio terminologico messo in campo, in merito alla fantasiosa denominazione dei contratti di lavoro. La realtà è fatta di aumento di salariati pagati sempre meno. Voglio dire che le molte forme variegate di contratti non sono altro che lavoro salariato nascosto. Quanto al muoversi della classe operaia, non possiamo fare altro che andarlo a scoprire, rilanciando l'inchiesta nei comparti del lavoro e nei territori. È questa l'attività principale che oggi bisogna fare.

 

R. di Michele

E’ la madre di tutte le domande, per parafrasare Saddam Hussein, nel senso che il proletariato, essendo un prodotto di un modo di produzione, è una classe complementare all’altra classe che nel modo di produzione ha il ruolo di detentrice dei mezzi di produzione. Dunque non è con il passaggio dei mezzi di produzione da una classe all’altra che si risolve il problema, ma con lo smantellamento del modo di produzione stesso. Ora, da un punto di vista materialistico, appare quantomeno problematico che il proletariato debba abbattere un modo di produzione divenuto sistema di cui è artefice come fattore complementare seppure in posizione subordinata. Detto brutalmente: il proletariato mondiale non può ipotizzare una società organizzata da sé stesso senza i capitalisti all’interno di un meccanismo regolato dalle leggi di mercato, cioè di un modo capitalistico di produzione.

 

D. Perché nonostante la crisi e un impoverimento crescente dei lavoratori non c’è una reazione generalizzata del proletariato?

 

R. di Salvatore

Eh, un bel problema. Due comunque i fattori: la scomparsa o l’assorbimento nel sistema capitalistico dei partiti operai e dei sindacati (questi ultimi fuori dal sistema non ci sono mai stati, ma almeno sono stati conflittuali) e la paura che ha assalito gli operai; paura dei licenziamenti, paura delle ristrutturazioni, paura delle delocalizzazioni, paura delle sostituzioni con altri lavoratori disponibili dato l'alto livello della disoccupazione. Il governo della paura, c'è sempre stato, ma oggi è ancor più forte e totale.

 

R. di Michele

Perché le masse si adagiano sul principio del minimo sforzo. Così facendo – almeno nella metropoli imperialista – arretrano continuamente pensando di evitare il peggio. La stessa rivoluzione è ritenuta la peggiore soluzione perché le masse proletarie ci vanno come alla guerra, per extrema ratio e non esaltandosi, come invece ci potrebbero andare i rivoluzionari che si pongono alla loro testa. Detto in maniera brutale, in Occidente si sta arrivando a raschiare il fondo del barile, ma non siamo ancora a questo.

 

D. Insomma la preoccupazione di finire di male in peggio e dunque l’adagiarsi al meno peggio continuamente?

 

R. di Salvatore

E già. Questo è il prodotto dell'aggressione liberista. Ma non durerà in eterno.

 

R. di Michele

Proprio così.

 

D. In che modo emergono le avanguardie del nuovo movimento operaio o rivoluzionario? Come  ritenete  che si possa o  si debba configurare il rapporto avanguardie- masse?

 

R. di Salvatore

Un’altra bella domanda. Secondo me le avanguardie emergono dalle lotte e dal conflitto, non possono esistere a priori. Essere avanguardia di massa vuol dire essere in sintonia con l’umore generale delle masse per aiutarle nel percorso di autorganizzazione e lotta. Questo non vuol dire fare ogni volta un referendum per stabilire il ‘che fare’, ma dare più ascolto all’umore delle masse e non al proprio istinto di avanguardia. Insomma l’avanguardia proviene dalle lotte, dalle masse, non dalle “scuole quadri”. Perlomeno questo è quello che ci ha insegnato la lotta.

 

R. di Michele

Completamente d’accordo con quello che afferma Salvatore. Le masse si mettono in  movimento e dal loro movimento esprimono le proprie avanguardie, le loro rivendicazioni e i loro obiettivi.

 

D. In questo modo si manda in soffitta il concetto che Kautsky e Lenin esprimevano sul ruolo della coscienza esterna da introdurre nelle masse che da sole arriverebbero al tradunionismo.

 

R. di Salvatore

Il più grosso imbroglio di Kautsky e della Seconda Internazionale è stato aver spezzato la lotta operaia in lotta economica (tradunionistica) e lotta politica. Questo ha prodotto un arretramento enorme delle lotte e della coscienza di classe. Lenin non ne era entusiasta, diciamo che l'ha subita (era difficile nei primissimi del ‘900 contestare le elaborazioni teoriche e politiche del più forte partito operaio e dei maggiori teorici alla sua testa: la socialdemocrazia tedesca), anche se ha tentato di correggerla, insieme alla sinistra della II Internazionale agli inizi del ‘900, con la “cinghia di trasmissione” dal partito al sindacato. Questa “cinghia” doveva impedire la politica rivendicativa volta all'integrazione nel sistema, politica dei sindacati, ma la “cinghia” purtroppo ha incasinato ancor di più le dinamiche di classe, dando pieni poteri alla burocrazia del partito.

 

R. di Michele

Non ci nascondiamo dietro un dito, la tesi di Kautsky e Lenin a riguardo è sbagliata, sa di metafisica. Da quale cassetto prenderebbero la coscienza i rivoluzionari per immetterla nelle masse? Perché esisterebbero queste avanguardie? In nome di cosa e di che esse nascerebbero? Su Lenin andrebbe fatta una riflessione più approfondita, ma non è questa la sede, perché  si è trattato di uno evento, dal 1905 al 1917, di uno  straordinario periodo da un punto di vista storico, ma non è stata certamente una rivoluzione proletaria, se per essa intendiamo l’ipotesi di un potere economico, politico e sociale diverso dai meccanismi del modo di produzione capitalistico.

 

D. Esiste ancora la dicotomia partito di massa e partito di avanguardia? Questa è una questione che ti riguarda molto da vicino visto il tuo percorso politico.

 

R. di Salvatore

Marx sosteneva che il proletariato diviene classe per sé e si dà in partito politico. Ma in questa fase va definito il ruolo rivoluzionario della classe operaia, il suo percorso e dunque anche la natura dell'organizzazione. E’ chiaro che una struttura organizzata la classe operaia la deve avere in ogni momento della lotta. In questa fase di ricostruzione del conflitto antagonista vanno incentivati i processi di autoorganizzazione proletaria e la costruzione nei territori di aggregati (consigli) di contropotere proletario. Parlare di partito, di massa o di avanguardia, mi pare senza senso.

 

R. di Michele

Si tratta di una questione impostata male per il passato e proseguita peggio, perché si presuppone che si possa stabilire a tavolino in che modo organizzare la classe e fornirle uno strumento che essa deve usare, piuttosto che assegnare alla classe, o ai movimenti di classe, il ruolo di soggetto che maturano durante lo scontro con altre classi del modo di produzione capitalistico.

 

D. Cosa pensate del  partito di massa e quello di avanguardia?

 

R. di Salvatore

Quanto al partito d’avanguardia, non sono d'accordo. Se ne può discutere – si può essere d'accordo o meno – soltanto in alcune situazioni particolari, quando il partito si configura come un comando che deve dirigere una guerra civile, se questa c'è. Oggi non c’è nemmeno un movimento di massa a livelli alti e antagonisti di scontro e quindi non ha alcun senso la discussione su questi temi. Non abbiamo gli elementi per discutere, se non rispolverando una visione dell'avanguardia con poteri taumaturgici in grado di “far prendere coscienza agli operai”. Per quanto riguarda il partito di massa, beh, la democrazia borghese è basata sui partiti di massa e ve ne sono tanti e molti proletari appoggiano l'uno o l'altro. C'è da dire che, scomparsi i “vecchi” partiti di massa (Pci, Dc, Psi), oggi i  “nuovi” partiti sono prevalentemente dei comitati elettorali, senza alcuna presenza nei territori né nelle lotte. Senza alcun radicamento di massa.

 

R. di Michele

Provo a dire così: il partito di massa si connota in quanto movimento riformista del proletariato, movimento sociale politico e sindacale di una precisa e circostanziata fase del modo di produzione capitalistico. Dunque un partito movimento del proletariato che non necessariamente si definisce comunista o socialista. Detto partito e movimento svanisce, si liquefà nella fase in cui decresce l’accumulazione capitalistica per dare corso nell’immediato non a un movimento e un partito necessariamente più avanzato o più socialista e comunista. Quando si frammenta un polo aggregato – come il proletariato di fase ascendente dell’accumulazione capitalistica – si ha una dispersione in mille rivoli e solo una acutissima crisi del capitale può far rinascere un nuovo movimento e un nuovo partito del proletariato. Esattamente quello che sta accadendo nel corso di questi anni. Siamo in mezzo al guado, al passaggio cioè dalla frantumazione del vecchio polo aggregato alla necessità di una nuova aggregazione che al momento non ci appare ancora.

Quanto al partito di avanguardia, esso esiste continuamente ed evolve con l’evolvere del rapporto capitale-lavoro. Per tutto quanto si diceva prima, proprio perché si tratta di un partito privo di forza, diviene un partito ideale, la sua forza sono le idee contro la forza dei fatti dell’accumulazione del capitale che è capace di irretire nella sua tela tutte le classi sociali, proletariato compreso.

 

D. Si dà in questa fase l’ipotesi di un partito di massa in Europa e negli Usa, ad esempio? È ipotizzabile un partito come il Pci degli anni cinquanta in Europa?

 

R. di Salvatore

C’è in atto una frantumazione notevole delle masse proletarie. Se non si mette in moto un processo inverso centrato sulla ricomposizione del tessuto proletario, è prematuro e sbagliato parlare della possibilità di un partito di massa oggi. Soltanto l'andamento della ricomposizione e della crescita del conflitto ci potrà dire se un partito o una diversa organizzazione di massa potrà realizzarsi e quali caratteristiche dovrà avere. Sicuramente diverse dai partiti precedenti. Io propendo per i consigli di contropotere coordinati e federati tra loro. Ma lo vedremo nei prossimi anni.

 

R. di Michele

Per le ragioni di cui si diceva prima non è ipotizzabile un partito di massa di ispirazione comunista, perché un proletariato che cominciasse a muoversi in questa fase in Europa non potrebbe partire dall’ipotesi di migliorare le sue condizioni di lavoro e di vita all’interno di un modo di produzione in crisi. E’ il motivo per cui manca un movimento di opposizione alla crisi in questa fase.  Gli operai hanno il senso del reale, sanno perfettamente che in questo periodo possono solo adagiarsi a perdere il meno possibile, non ad avanzare. Non hanno da chiedere. La tesi di Marx «gli operai hanno da perdere solo le loro catene» va letta come in ultima analisi, in fondo al tunnel del modo di produzione capitalistico.

 

D. Avrebbe senso un partito d’avanguardia come ipotizzava Lenin ai primi del 900?

 

R. di Salvatore

Non lo so, ma non penso che abbia senso. Una risposta più consapevole a questa domanda si potrà dare quando il conflitto crescerà e avrà un carattere antagonista e rivoluzionario. Quando si profila una guerra civile rivoluzionaria. Solo allora si potrà discutere di cosa serve alla classe per andare avanti. Allora forse scopriremo tanti altri strumenti che non ci faranno ricopiare strumenti del passato.

 

R. di Michele

Da un punto di vista ideale è possibile tutto, dunque anche un partito – cioè una setta – che si autodefinisce avanguardia del proletariato. Ma si tratterebbe appunto di una setta e ce ne son già tante, di molteplici tendenze, ma lontane anni luce dallo stato d’animo reale delle masse proletarie.

 

D. Che cos’è l’autonomia di classe?

 

R. di Salvatore

Dovrebbe essere autonomia della classe dalle scelte della borghesia e dai modelli sociali che questa produce. Invece oggi quei modelli sociali e valori borghesi sembra facciano presa sul proletariato. Ma anche autonomia dai partiti riformisti, quelli che un tempo erano il Psi e il Pci. Oggi sono quelli che ti fregano e ti portano al massacro e alla morte politica. Autonoma è quella porzione di classe che “rifiuta” di essere forza lavoro, ossia capitale variabile complementare all’accumulazione capitalistica. Una identità che la classe si costruisce lottando contro quella parte di sé che vuole essere funzionale all'accumulazione del capitale.

 

R. di Michele

Si tratta di una questione molto complessa. Il proletariato non può essere autonomo, non può avere cioè una propria visione di vita e di organizzazione della società perché dipende dal rapporto con la borghesia, che a sua volta dipende dall’accumulazione del capitale, che a sua volta dipende dall’andamento del mercato e della concorrenza.

Si può incominciare a parlare di autonomia di classe solo in presenza di un movimento generale del proletariato all’interno di una crisi generale dove viene posto in discussione il modo di produzione e di organizzazione sociale. L’inazione del proletariato – a causa di un andamento più o meno regolare dell’accumulazione – non può presupporre in alcun modo una sua autonomia. Una autonomia vera, reale, materiale, di forza contrapposta, non soltanto di natura ideale.

 

D. Quale nesso materiale c’è tra quello che viene definito terrorismo nell’area mediorientale oggi, e quello che veniva definito terrorismo in Italia e in Germania negli anni 70?

 

R. di Salvatore

Il potere ha voluto semplificare e mettere sullo stesso piano cose molto diverse fra loro, per demonizzare e cancellare realtà ostili. La guerriglia urbana è tutt’altra cosa dallo stragismo,  questo sì, terrorismo. Seminare terrore fra le masse con stragi di cittadini inermi da chiunque fatte può essere definito “terrorismo”, pratica quasi sempre posta in essere da apparati degli stati, apparati palesi o occulti. La lotta di avanguardie che praticano la guerriglia riferendosi alle necessità delle masse e agiscono in funzione di esse è tutt’altra cosa. Questo vale tanto nelle metropoli quanto nei paesi che hanno subito e stanno subendo tuttora l’oppressione coloniale e imperialista. L’Algeria degli anni sessanta è l’esempio più eclatante in tal senso. Un conto è far esplodere una bomba in un ritrovo borghese degli occupanti, come faceva il Fln algerino, altra cosa la repressione brutale delle forze imperialiste del governo francese contro la guerriglia algerina fatta di torture spaventose e stragi della popolazione che la sosteneva nella lotta per l’indipendenza.  Le formazioni politiche di estrema sinistra che negli anni settanta si richiamavano alla strategia della guerriglia, non assaltavano i supermercati frequentati dalla povera gente, ma colpivano personaggi e gangli del potere del capitale, delle istituzioni e dello stato.

 

R. di Michele

Ha ragione Salvatore, esiste il terrorismo degli stati e delle classi che ne fanno uso. Dunque non esiste in assoluto un concetto di terrorismo.

Di tutt’altra natura è la lotta violenta anche di minoranze che si richiamano alle necessità di ribellione degli oppressi. Le classi dominanti e i loro pennivendoli capovolgono i termini e definiscono terrorismo l’azione variamente articolata degli oppressi e necessità dell’uso della forza per i soli deputati a usarla, cioè gli stati e i loro apparati repressivi, democratici o meno poco fa. Ciò detto, va ribadito con forza che è giustificata ogni azione che proviene dalle aree sotto le grinfie degli occidentali la cui natura sia antimperialistica, per quanto disordinata e confusa,  come riflesso agente di una oppressione plurisecolare. Della stessa natura – cioè di espressione materiale e ideale degli oppressi – il movimento che si caratterizzò in Francia, Italia e Germania negli anni settanta. Si tratta di una continuità storica dell’antisistema, confuso finché si vuole e che marcia a ondate.

 

D. Veniamo a una questione che riguarda più da vicino i giorni nostri. Contro l’avanzata dell’Isis che intende costituire uno stato islamico per tutta l’area mediorientale partendo dall’Iraq, si va facendo strada, fra i vecchi stati imperialisti occidentali, l’ipotesi di armare i curdi contro gli jihadisti islamici. Quelli che noi chiamiamo o definiamo comunisti come si dovrebbero schierare? Cosa dovrebbero dire? A chi e in che modo dovrebbero rivolgersi in Occidente e verso le masse mediorientali coinvolte in uno scontro con caratteristiche un po’ diverse rispetto al 1990/1?

 

R. di Salvatore

E’ molto complesso. Da tener presente che nella tradizione islamica non sono previsti gli stati-nazione l'un contro l'altro. L’aspirazione è ad un unico aggregato di tutti i credenti. Era cosi anche alle origini del cristianesimo. La borghesia con un colpo da maestro è riuscita a nazionalizzare il cristianesimo, al punto che nelle guerre europee lo stesso dio sosteneva eserciti che si ammazzavano a vicenda. Recentemente, nel 900, la borghesia mediorientale è riuscita a nazionalizzare anche l'Islam, ma esistono ancora pulsioni universaliste che possono essere strumentalizzate da chi vuole scatenare guerre. Ovviamente vanno armate, finanziate e sostenute. Chi è che finanzia questi massacri? C'è una lotta senza quartiere per impossessarsi di quell'area, anche per affermare un ruolo egemone nella gestione delle risorse delle materie prime del sottosuolo. Quanto ad alcuni metodi di lotta, ritenuti dai “nostri” politici e giornalisti, selvaggi, brutali e bestiali, beh, non è propriamente l’Europa che può dare lezioni al mondo dopo quello che ha combinato negli ultimi cinque secoli ovunque.

Va precisato che le potenze occidentali non armano né sostengono i curdi (come falsamente dicono i media), ma solo quei curdi nell'area del nord Iraq, sotto Barzani, da sempre alleato degli Usa. I curdi della Turchia, che combattono duramente contro l'Isis non solo non vengono sostenuti, ma vengono ammazzati anche dalla Turchia che è la probabile sostenitrice dell'Isis insieme all'Arabia Saudita a cui vuole sottrarre il rapporto privilegiato con l'Isis. Due figliocci degli Usa (Turchia e Arabia Saudita) che stavolta si scontrano per operazioni egemoniche nell'area mediorientale.

Cosa dire? Cominciare a far cooperare tutte quelle aree dove comincia a prender corpo l'autogestione proletaria. Che altro possiamo fare? Poi bisogna vedere come sul campo si svilupperanno realmente le contraddizioni e come i vari spezzoni del popolo curdo (Turchia, Siria, Iraq, Iran) si comporteranno in questo scontro che avrà una lunga durata.

Comunque le dinamiche economiche e di guerra possono innescare percorsi imprevedibili.

 

R. di Michele

Premesso che c’è una causa del popolo curdo e una legittima aspirazione a costituire una propria nazione e un proprio stato allo stesso modo del popolo palestinese, tanto per fare un esempio, è evidente che c’è il rischio di cadere nelle fauci dell’Occidente. Già in troppi democratici si affannano a suggerire di armare i curdi contro l’Isis. Fosse così facile la lotta contro l’ipotesi di uno stato islamico, l’avrebbero già risolta gli occidentali. La questione è che gli stessi curdi non sono monolitici e non si prestano facilmente a essere utilizzati in questa direzione. Ad ogni modo l’unica cosa che possiamo loro raccomandare è di non cadere dalla islamica padella alla brace imperialista occidentale.

 

D. Infine una domanda per così dire metafisica: perché una persona diviene comunista?

 

R. di Salvatore

Dare un senso alla propria vita. Io volevo dare un senso alla mia vita, anche quando non ero in cantiere. Quelli della mia età, senza aver fatto l’università o studi filosofici, volevamo dare un senso alla nostra vita e in quegli anni. Vivendo in Italia, fummo influenzati da quel che proveniva dal mondo del lavoro e da splendidi personaggi che si battevano per un mondo diverso, opposto e migliore rispetto a quella schifezza che è il capitalismo. Fossi nato e vissuto in altri periodi e regioni sarei stato influenzato da altre cose, questo è fuori discussione. Nei vecchi comunisti si rispecchiavano valori sociali fondamentali di giustizia e di equità nei quali io mi ritrovavo.

 

R. di Michele

Nel rispondere a questa domanda mi rifaccio a un concetto atomistico di Tito Lucrezio Caro che a sua volta prendeva da Epicuro. Ogni organismo della natura, dunque anche ogni corpo umano, è un aggregato di atomi quale effetto di un processo di disgregazione e nuova riaggregazione. Necessariamente il nuovo aggregato  risente della disgregazione da cui egli è sorto.

Facciamo un esempio concreto. Molti compagni degli anni 60 e 70 sono figli di una generazione che ha vissuto  il martirio della seconda guerra mondiale. Le ferite di quel conflitto e di quei lutti non si sono estinti con la fine della guerra, ma si sono sedimentati nel corpo sociale senza un ordine definito per classi o categorie.  Un malessere e uno spirito di ribellione che si diffonde prescindendo dalla volontà del singolo. Si tratterebbe di un fenomeno solo apparentemente inspiegabile, come nelle circostanze di un giovane che ha tutto – per i valori correnti – cioè un lavoro stabile, una casa, una famiglia ecc. eppure “sceglie” una militanza politica ponendo la sua vita al servizio di una causa che al momento apparirebbe a lui estranea. Si tratta di quel famoso ideale, nel caso in specie comunista, che si impossessa di un corpo umano e lo fa vivere in sua funzione.  I cattolici cristiani questo fenomeno lo chiamano ‘vocazione al sacerdozio’ o ‘chiamata del signore’. Non è come sosteneva Marx nel Manifesto che quando una classe sociale sta per essere sconfitta una parte di essa transfuga nella nuova classe e si pone al suo servizio, in modo particolare alcuni ceti di intellettuali. Le esigenze, i bisogni e le necessità degli oppressi si tramutano in idee e si diffondono per le vie più disparate. Gli esempi nella storia si contano a milioni. Si tratta dello stesso procedimento dell’arte, come dice Salvatore, ma privo di libero arbitrio, per dirla tutta.

 

D. Esisterebbe o no  il libero arbitrio?

 

R. di Salvatore

E’ l’ambiente che ti influenza, ma esiste una percentuale certamente di libero arbitrio, tanto è vero che tantissime altre persone, anche miei amici con cui ho fatto un percorso comune, fecero un’altra scelta e un altro percorso di vita.

 

R. di Michele

Dovessimo definire una percentuale di libero arbitrio nella scelta della militanza entreremmo in crisi profonda, almeno per quel che mi riguarda. Esistono i condizionamenti familiari, il vissuto, l’ambiente circostante, il movimento degli oppressi, e tanti altri fattori a noi molto spesso sconosciuti e incomprensibili. Come si fa a stabilire la percentuale di coscienza in una scelta che è dettata da tanti fattori?

L’altra domanda che rimarrebbe inevasa è: in una fase di stallo sociale, senza lotte e movimenti sociali in piedi, perché una persona dovrebbe allevare un ideale se non in quanto riflesso di profonde ingiustizie sociali di cui è circondato?.

 

D. Sarebbe opportuno aprire una fervida discussione?

 

R. di Salvatore

Sarebbe opportuno e necessario, ma ancor più necessario è moltiplicare una presenza tra i settori proletari con l'inchiesta e con proposte di autorganizzazione.

Speriamo di riuscire a scalfire in qualche modo il muro dello scoraggiamento, in modo particolare presente fra le giovani generazioni, visto che le vecchie formazioni politiche si sono avvolte in un proprio bozzolo di settarismo senza nessuna possibilità di divenire una crisalide e far volare una nuova farfalla.

 

R. di Michele

Concordo pienamente. Non possiamo in nessun modo continuare a coltivare le asfittiche chiesette fondate molto spesso più su dogmi ideali che sulla realtà in movimento. Pensare che il capitalismo sia eterno è  un dogma allo stesso modo della trinità del dio creatore del mondo e di tutto l’universo. Si tratta di un modo di produzione che si è dato mediante fattori che stanno venendo meno e lo faranno implodere. Se siamo in grado di capirlo daremo un contributo fattivo e positivo a una prospettiva che dal suo seno si svilupperà.


























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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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