Con l’approssimarsi della scadenza elettorale del 26 maggio si ripresenta, per la sinistra, una nuova occasione per discutere della spinosa questione sindacale. Lo spunto viene offerto, questa volta, dall’appello unitario firmato da Confindustria e Cgil Cisl Uil, ovvero – ancora a tutt’oggi – i sindacati maggiormente rappresentativi. Come è possibile, perché due controparti firmano un appello unitario, cosa unisce padroni e operai, borghesi e proletari? Perché cadere così in basso, si chiedono addirittura certe formazioni di estrema sinistra? Evidentemente c’è qualcosa che non va, o tra i sindacati confederali oppure fra quanti non hanno chiara la natura del sindacato, la natura del capitalismo e innanzitutto il modo di vivere del proletariato nel capitalismo.

   In verità la questione è ben più complicata di come la si vorrebbe rappresentare, perché investe il modo d’essere del capitalismo come movimento storico che in questa sede purtroppo non è possibile approfondire.

   Va detto innanzitutto che il sindacato sorge come riflesso agente del modo di produzione capitalistico da parte dei lavoratori. Fin dalle prime formazioni di muto soccorso esso si caratterizza come necessità di difesa di una parte contro un’altra di un tutto, che erano e sono complementari. Detto in parole semplici: il sindacato nasce e si sviluppa perché nasce e si sviluppa il capitalismo. E nasce lì dove nasce la rivoluzione industriale per svilupparsi insieme all'estendersi a macchia d’olio di tale modo di produzione. E nasce – si badi bene – sempre a seguito di mobilitazioni improvvise e molto spesso violente dei lavoratori contro lo sfruttamento, contro i bassi salari e le invivibili condizioni negli ambienti di lavoro. Come racconta Jerey Brecher nel suo bel libro Sciopero! edito da Derive Approdi nel 1999. Solo dopo, quelle strutture sorte dalla spontaneità divengono istituzioni dei lavoratori in un cammino comune nel modo di produzione capitalistico in un rapporto altalenante con il capitale secondo il procedere dello sviluppo dell’accumulazione.

   Ora va detto che il cammino dei sindacati rispecchia, a grandi linee, lo stato d’animo della stragrande maggioranza dei lavoratori sia tesserati che non. Pertanto chi nella sinistra critica i sindacati confederali perché sarebbero concertativi, dunque non combattivi, separano i rappresentanti dai rappresentati sopravvalutando il ruolo dei primi e sottovalutando quello dei secondi, cioè di chi dovrebbe essere combattivo; secondo una certa concezione per cui i sindacati confederali frenerebbero la forza dirompente e la capacità di lotta del proletariato. Si tratta di una impostazione molto diffusa nell’estrema sinistra degli anni ‘70 in Italia. Una posizione non materialistica ma piuttosto soggettivistica, perché capovolge il rapporto di chi esprime cosa.

   Nella storia del movimento operaio, perlomeno in tutto l’Occidente, ci sono stati molti tentativi di costituire sindacati combattivi e alternativi alle grandi organizzazioni confederali, ma hanno avuto tutti vita breve, o comunque non sono riusciti a rappresentare quote consistenti di lavoratori, proprio perché puntavano sulla volontà di questi e sulla loro presa di coscienza piuttosto che sul loro reale stato d’animo; senza sottacere il ruolo repressivo dello Stato, ieri come oggi, come ad esempio il Si Cobas che organizza i lavoratori della Logistica. Per tutti vogliamo citare quello degli I.W.W.  (Industrial Workers of the World) negli Usa agli inizi del ‘900, forse il più importante tentativo di racchiudere in un programma politico e sindacale una nuova organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori.

   Veniamo all'appello unitario di Confindustria e sindacati, che non ha avuto grande risonanza, con pochi commenti e del tutto inappropriati.

   Il cuore del documento è: siamo sulla stessa barca, dunque abbiamo interessi in comune come padroni e operai; e l’Europa unita ci può aiutare a superare questa fase di crisi per l’accresciuta concorrenza dell’Est e dell’Ovest. Alcune formazioni di estrema sinistra si chiedono: è vero che non c’è alcuna contrapposizione e inconciliabilità tra gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti? Per rispondere a questa domanda dobbiamo svestirci dei nostri panni ideali e misurarci con l’umore dei lavoratori; altrimenti detto: dobbiamo mettere i piedi nel piatto e guardare la realtà per quella che è prim’ancora di immaginarla secondo i nostri desideri.

   Il capitale è un movimento d’insieme di più componenti, una di queste è la forza lavoro. L’operaio ha la consapevolezza di essere una parte complementare di un tutto. Chi può contraddire questa tesi? Non a caso il mantra continuo dei capitalisti è: il lavoro; e il loro verbo conseguente suona sempre lo stesso ritornello: bisogna creare lavoro. E l’operaio cosa pensa? Se c’è lavoro ho la possibilità di un salario. Chi può smentire questa semplice verità? Di che meravigliarsi se gli operai attraverso le loro organizzazioni sindacali e politiche sostengono che bisogna portare a compimento il Tav Torino-Lione? Per la stessa ragione non è possibile chiudere l’Ilva di Taranto. E per fortuna che il Ponte sullo stretto di Messina non ha avuto seguito. E andando indietro con gli anni potremmo ricordare che l’atteggiamento non proprio benevolo degli operai delle ditte che costruivano la Centrale nucleare di Montalto di Castro nei confronti dei militanti dei Comitati che si opponevano. Citiamo questi casi per non parlare dell’industria delle armi, dove gli operai sanno di costruire strumenti di morte, ma sono avviluppati da un meccanismo infernale di un modo di produzione che detta le sue leggi, e sono perciò impotenti rispetto ad esso.

   Come si comportano i sindacati, cioè l’espressione organizzata dei lavoratori, in questi casi? Contrattano, o cercano di farlo, preservando il diritto dell’azienda ad esistere, a produrre e vendere; e non tirano troppo la corda, perché c’è sempre un concorrente pronto ad approfittare. Dunque gli operai stanno nella stessa barca con i padroni, e ne hanno piena consapevolezza. Si tratta di quella famosa gabbia d’acciaio come la definiva Max Weber che tiene insieme parti contrastanti. Questa è la realtà e da essa dobbiamo partire per impostare un punto di vista di classe o comunista, che guardi sì oltre, ma con i piedi ben piantati a terra.

   Se è vero che stando sulla stessa barca uno rema e l’altro no, uno mangia poco e male e l’altro nuota nel benessere, è però altrettanto vero che hanno una condizione in comune, quella di stare nella barca, cioè di navigare nel mare aperto della concorrenza, dei prezzi e del mercato. E questa condizione non può essere elusa. L’operaio sa che la merce da lui prodotta deve competere con un’altra merce prodotta da un altro operaio, come il suo padrone sa di dover competere con un altro padrone. E’ la legge della giungla, ma è la realtà da cui non si può sfuggire. Non a caso in una fase di crisi come quella attuale, in modo particolare in Occidente, i lavoratori si orientano e votano a destra e la sinistra entra in crisi. Dunque l’appello unitario di Confindustria e sindacati è l’espressione di una causa comune delle due maggiori componenti che formano il capitale, che individuano nell'Europa unita uno strumento per difendersi contro la concorrenza asiatica e quella d’oltre oceano. Uno strumento che consiste nella possibilità di contrattare unitariamente acquisti di materie prime e vendite dei prodotti; uno strumento politico per pesare di più nei rapporti internazionali piuttosto che presentarsi come singole nazioni al cospetto di giganteschi competitori asiatici, da un verso, e della potenza (seppure in decadenza) degli Stati Uniti, dall'altro.

   Ripetiamo: è del tutto naturale l’appello di Confindustria e sindacati e chi si meraviglia dimostra di non aver capito l’essenza del modo di produzione capitalistico.  Per questa ragione è più che comprensibile leggere nell'appello: «Per queste ragioni esortiamo i cittadini di tutta Europa ad andare a votare alle elezioni europee dal 23 al 26 maggio 2019 per sostenere la propria idea di futuro e difendere la democrazia, i valori europei, la crescita economica sostenibile e la giustizia sociale».

   Ma allora quel che è reale è razionale? Al riguardo il vero punto in questione è di stabilire il dato oggettivo di partenza, il modo di produzione capitalistico che tiene insieme due parti in contrasto: padroni e operai, le cui rispettive rappresentanze sono costrette a proiettare sul terreno politico la propria unità di intenti per difendersi dall'agguerrita concorrenza. Si tratta di un fatto nuovo ed estremamente interessante che dobbiamo cogliere perché è foriero di sviluppi non ancora messi in debito conto.

   «E' perlomeno bizzarro - scrive Sergio Farris su sinistrainrete.info - che le forze sindacali abbiano apposto la loro sottoscrizione ad un invito al voto come questo». Perché è bizzarro? E’ nella natura di un rapporto complementare quello di unire le forze contro un altro rapporto di natura complementare concorrente. A meno che non si voglia negare tale natura, nel qual caso dovremmo spiegare perché non è complementare il rapporto tra delle componenti che determinano il capitale come movimento economico e sociale.

   Se vogliamo essere coerenti dobbiamo invece dire che siamo ad una svolta storica, perché il rapporto tra capitalisti e operai è passato dalla negazione dei diritti della parte maggioritaria, che compone l’insieme del capitale, alla sua indispensabilità nella concorrenza: gli uni non possono fare a meno degli altri e viceversa. Altrimenti detto: il modo di produzione capitalistico ha fatto un lungo percorso, si è esteso a macchia d’olio su tutto il pianeta e comincia a mostrare la corda proprio lì, dove era nato. Ironia della sorte: quello che di primo acchito può apparire come un punto di forza per il capitalismo in realtà è la sua debolezza, perché è obbligato a chiamare alla solidarietà il proletariato contro la concorrenza, senza avere la possibilità di concedere niente in cambio. Al tempo stesso il proletariato è costretto a subire un patto di solidarietà senza ricevere nulla in cambio. Fino a che punto può durare? E’ una domanda alla quale nessuno è in grado di rispondere, di certo però non potrà durare all'infinito.

   Di riflesso, a un quadro sociale in movimento di questo tipo, in alcune componenti politiche di estrema sinistra potrebbe scattare la proposta di costituire sindacati alternativi oltre quelli già esistenti, senza una preventiva mobilitazione dei lavoratori. Questo non farebbe che aumentare la confusione perché l’apatia dei lavoratori, la loro inazione – che ha cause profonde – non la si smuove con nuove organizzazioni formali da mettere al loro servizio; e meno ancora con programmi da osteria della storia che chiamano i lavoratori a schierarsi per un sovranismo nazionale di sinistra ovviamente, per combattere quello di destra; opponendo così al sovranismo europeista di Confindustria e  Confederazioni sindacali nazionali – e spirito di rassegnazione dei lavoratori -  il  sovranismo nazional-popolare, un rimedio peggiore del male, perché rimuove totalmente la questione della concorrenza, quale questione centrale come non mai in questa fase.

    Per dirla chiara e forte: o i lavoratori sobbalzano contro l’immiserimento della loro condizione oppure i loro rappresentanti sono i sindacati confederali che firmano appelli come quello con la Confindustria di questi giorni. Controprova? Non c’è stato da nessuna parte una protesta, un comunicato, un appello contro quello firmato dalle proprie organizzazioni. Duro da digerire, ma questo è.

 

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Da Marx a Marx
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Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

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