Esattamente un anno fa pubblicavo un articolo dal titolo: Caos Italia, ovvero la rivolta del ceto medio. A distanza di un anno con i risultati delle elezioni europee viene confermata la tesi di fondo. Ovvero il ceto medio, cioè un insieme di categorie sociali cresciute a dismisura durante gli anni di crescita dell’accumulazione capitalistica, con la crisi non trovano più spazio nel modo di produzione e si ribellano. 

   Quando ho pensato di scrivere queste note mi sono posto una domanda: chi è l’interlocutore al quale mi devo rivolgere? In che modo si può parlare da vecchio militante di estrema sinistra a chi – privo di schema ideologico – come centinaia di migliaia di giovani, proletari e non, occupati, precari o disoccupati che hanno visto nel M5S un faro nella notte e lo hanno supportato fino a farlo diventare il primo partito italiano in soli 10 anni? Non mi nascondo dietro il dito: la risposta è molto complicata.

Intanto ci provo, ma con un’avvertenza: cari giovani, mentre da parte mia c’è da fare lo sforzo di rendere alcune questioni, molto complicate, accessibili a chi vuole sforzarsi di capire, da parte vostra – interessati in prima persona -  c’è da fare lo sforzo di non chiedere, in primis “hic et nunc”, qui e ora, «c’amma fa?» per una ragione molto semplice: perché chi dovesse rispondere a questa domanda proporrebbe la propria idea dall’esterno, sul da farsi, a chi vive il sentimento della precarietà e del disagio, applicando così uno schema metafisico, un tempo si sarebbe detto da «coscienza esterna» cioè di sovrapposizione di un’idea esterna all’umore di chi pone quella domanda. Se proprio si vuole una risposta ci si può rivolgere a un Marco Travaglio, Gomez, Padellaro e altri sponsor del M5S.

   Detto in modo brutale: chi è esasperato ed intende agire non chiede “che fare?”, ma è spinto a fare e strada facendo aggiusta il tiro. Mentre chi non è esasperato, ma mugugna, affida la propria rabbia a chi si propone di raccogliere le sue lamentele e promette di risolvere i suoi problemi democraticamente, con calma, seguendo le leggi dello Stato, la Costituzione e via di questo passo. Sicché abbiamo due livelli di protesta: uno diretto all’azione, superando la legge del minimo sforzo di cui è permeata la stragrande maggioranza degli uomini; l’altro è quello di adeguarsi al minimo sforzo nel tentativo di ottenere con il minimo sforzo il massimo dei risultati. Questo secondo caso riguarda il rapporto tra le masse giovanili della generazione di questi anni e il M5S, che è sorto come grido di protesta ed è cresciuto in soli dieci anni al punto da  divenire il primo partito italiano e a sedere sugli scranni del governo della repubblica (un discorso per certi aspetti valido anche per il nuovo movimento leghista, come più avanti vedremo). Beninteso: ciò nello spirito delle migliori buone intenzioni, in totale buona fede, che è da accordare a tutti, fino a prova contraria. Segno distintivo: onestà contro le ruberie e la corruzione, attraverso una dura battaglia parlamentare, in nome della legge, con la Costituzione alla mano, in nome del popolo sovrano.

   Mi corre l’obbligo di una premessa : le elezioni esprimono solo un orientamento, uno stato d’animo, un umore di chi vota o di chi non vota; mentre i fattori che determinano cambiamenti reali nei rapporti umani sono i movimenti del capitale e le reazioni ad essi. Questa premessa è necessaria come l’aria per respirare per introdursi a capire in che modo procede il movimento storico del capitale ben oltre le apparenze e le chiacchiere di “addetti ai lavori”, cioè dei propagandisti di parte, molto interessati, lo dice Antonio Padellaro, uno di loro: «Perché il giornalismo è un mestiere basato sulla chiacchiera, sulla produzione di chiacchiere, non di merce»[1].

   Fatta questa necessaria premessa, cerco di chiarire alcuni aspetti del problema, prendendo di petto la questione centrale che ho esposto nella premessa: cosa si muove e perché dietro “la volontà popolare” del “suffragio universale”, ma innanzitutto verso quale prospettiva, perché è questo che deve interessare a chi vuole stare schierato contro questo feroce sistema.

   Ora, in una certa sinistra, e siamo costretti tutti a guardarci in faccia se vogliamo essere seri, a proposito dell’Europa e dell’avanzata del sovranismo, si scrive che «da tempo si sta scollando il mastice della presunta solidarietà che la teneva in piedi»[2]. La contraddizione di questa posizione sta già nell’aggettivo, perché una cosa o è o è presunta, e se è presunta non si scioglie, o per meglio dire, si scioglie in quanto illusione di chi la voleva come reale.

   La volontà di unire l’Europa aveva come obiettivo la non belligeranza tra le potenze del vecchio continente che avevano mandato al macello decine di milioni di uomini delle classi proletarie e contadine e massacrato intere popolazioni oltre a distruggere interi quartieri delle grandi come delle piccole città, infrastrutture e così via. Dunque da un punto di vista ideale si trattava di un’aspirazione “nobile”, che si completava alla fine di un ciclo di straordinario sviluppo economico-sociale, ma doveva fare i conti con le maledette leggi impersonali dell’economia. E si completava con l’introduzione di una moneta unica - ad eccezione dell’Inghilterra – legata a quella del marco tedesco che rappresentava la forza della Germania che aveva superato brillantemente la separazione in due del paese e con un’economia solida.

    Ma proprio perché l’economia ha leggi proprie, leggi impersonali, in una fase di crisi produce in modo accentuato quel processo che Hobbes aveva sintetizzato in homo homini lupus, ovvero ogni uomo è lupo per l’altro uomo. Le cui manifestazioni si caratterizzano in classismo, razzismo e quant’altro che a loro volta producono personaggi alla Salvini che le sintetizza e ne fa elementi di programma e battaglia politica. Un razzismo sociale e politico che in ultima istanza si trasmette negli organi dello Stato che lo utilizza secondo l’andamento dei rapporti di forza fra le classi nella società.

   L’introduzione della moneta unica, avvenuta a gennaio del 1999 in 11 paesi, non poteva regolamentare quello che non è regolamentabile, ovvero le leggi non scritte ma operanti dell’economia. E quelle leggi cominciavano a dare un risultato straordinario: si presentava sulla scena mondiale un potente nemico, un intero continente, quale l’Asia, che avendo superato la fase della colonizzazione diveniva un agguerrito concorrente, insieme ai paesi dell’America latina. Stiamo parlando di paesi di alcuni miliardi di persone, con un sottosuolo ricco di materie prime, per un verso, e centinaia di milioni di braccia a basso costo pronte a entrare nel mercato del lavoro, al cui cospetto l’insieme delle nazioni europee occidentali ci fanno la figura del nanerottolo. 

   Un antico proverbio napoletano dice: s’è ghiuto pe se fa ‘a croce e s’è cecato l’uocchie. Cioè a dire: il modo di produzione capitalistico non poteva non divenire mondializzato, anzi proprio la mondializzazione ha mostrato l’impossibilità di frenare le sue leggi impersonali. Sicché le grandi potenze – un tempo padrone del mondo – hanno allevato la serpe in seno, cioè un nemico che è stato attratto nel turbinoso vortice della concorrenza fra le merci, compresa la merce umana, quella dei lavoratori, che sfida continuamente le vecchie potenze, come ovvio che sia, in modo particolare – udite! udite! – sulle nuove tecnologie. Dunque l’ideale: un’Europa unita e pacifica in un’armonia di libero scambio con i paesi emergenti, si trova a dover fare i conti con un acerrimo nemico di cui essa stessa è stata l’artefice con la rivoluzione industriale.  E che le leggi dell’economia capitalistica si sottraggano alla volontà degli uomini lo poté verificare già la Francia all’indomani della rivoluzione del 1789, quando fu introdotta la legge del maximum e ancora di più successivamente con la Comune di Parigi, per non parlare della rivoluzione russa e di quella cinese. «Le merci», scrive lo storico Tarle, «dovevano con tutti i mezzi leciti e illeciti raggiungere, oltrepassare il confine dove per esse si pagava non un prezzo fittizio», come imponeva la legge del maximum, «ma il prezzo di mercato»[3] che non lo fa il libero arbitrio dell’uomo, ma la legge della concorrenza, della domanda e dell’offerta, cioè del mercato, in modo del tutto impersonale, appunto. Lo stesso possiamo dire oggi per dazi e sanzioni, che possono in qualche modo limitare e/o danneggiare le economie dei paesi emergenti, misure che aumentano il caos, ma non imbrigliare le leggi dell’economia.

   Al riguardo, certi intellettuali di sinistra italo-francesi, come taluni filosofi da talk show, farebbero bene a leggere quello che scrive un brillante Parag Khanna sull’Asia di questi anni; misurerebbero così tutto il loro provincialismo e la loro superbia, di quelli che pensano ancora di essere i civilizzatori del mondo. Torniamo all’ordine del giorno, al vento che spira e continuerà a spirare dopo queste elezioni in Europa.

   Si dà il caso (quando si dice il caso) che proprio mentre si votava e si contavano le schede i media italiani erano costretti a puntare l’attenzione su tre fatti che mostrano in luce riflessa la tesi di fondo che qui viene sostenuta: a) il tentativo di accorpamento di due grandi gruppi automobilistici Fca e Renault; b) l’acquisto di Auchan da parte di Conad; c) il fallimento di Mercatone Uno. Poi si aggiunta all’ultima ora la chiusura della Wirpool a Napoli. A questo punto chiedo un po’ di pazienza al lettore.

   Il giornale della Confindustria, cioè la voce del padrone, scrive: «All’annuncio di quella che potrebbe essere l’operazione industriale dell’anno il governo sembra essere arrivato distratto dagli attriti della maggioranza e dal voto delle europee»[4]. Come dire: cosa volete che ce ne frega delle crocette sulle schede, i veri problemi sono quelli che noi vi poniamo all’attenzione: l’economia, la produzione di valore, non le chiacchiere, proprio come scrive Antonio Padellaro. Perché il sottotitolo non scritto ma inteso è: «proprio per gli impianti europei potrebbero esserci rischi di sovrapposizioni»[5], leggi chiusura di impianti e licenziamenti da scaricare sugli oneri dello Stato, ovviamente. Proseguendo ci vien detto che «I sindacati sono cauti nelle valutazioni: da un lato apprezzano l’operazione di consolidamento e di rafforzamento reciproco»[6], cioè l’orgoglio di far parte del lavoro, del valore, «ma dall’altro lato tengono alta la tensione e chiedono l’apertura di un tavolo di confronto con l’azienda a tutela delle produzioni italiane.

   Come intende rapportarsi il governo di fronte a questa straordinaria operazione? Ecco pronto il servitore Salvini, si badi bene, il sovranista Salvini, correre a stendere un tappeto verde ai padroni del più grande gruppo industriale italiano, che diventerebbe italo-francese (paese dove ha vinto un’altra sovranista, la Le Pen) che si esprime da par suo: «Se fosse richiesta la presenza istituzionale italiana», leggi finanziamenti delle casse statali, «sarebbe doveroso esserci perché quello dell’auto è un comparto importante». Dunque la Fiat si rinnova, si ingrandisce, investe in tutto il mondo, ma si riserva sempre il diritto di battere cassa al governo di madre patria, se no che patrioti sarebbero gli Agnelli? E proprio per questo non può essere esclusa a priori una pensata avventurosa insieme ai francesi in Libia, visto che sono soci in affari e lì c’è ricchezza da prendere. Questi hanno il dono dell’ubiquità: ubi bene ibi patria (lì dove sto bene è la mia patria) quando si tratta di fare affari, invece fieri e orgogliosi patrioti quando si tratta di essere finanziati. Anche perché è necessario che «una politica industriale dell’auto che non ci trovi isolati al cospetto tanto dei piani delle grandi potenze extra Ue, ovvero Cina e Stati Uniti, quanto dei grandi costruttori tedeschi»[7]; mentre l’economista Cottarelli continuamente ripete che si “tratta di togliere quote di mercato alla Germania” nei confronti dei mercati asiatici.

   Di fronte a queste enormità dei grandi gruppi, cosa si vuole che siano i problemi di un’azienda come Mercatone Uno che fallisce e manda sul lastrico 1800 dipendenti? Suvvia, non scherziamo, di contro c’è un’altra azienda italiana che incorpora la francese Auchan, sempre in nome del sovranismo, contro quello francese, in questo caso. Beh, ci saranno ristrutturazioni, assorbimento del personale e non alle stesse condizioni di inquadramento, forse anche licenziamenti, trasferimenti e quant’altro. Ma si tratta di dettagli, mentre la patria mostra di essere viva e fiera, ecc., ecc.

   La madre di tutte le domande è: di fronte a un quadro di questa portata che può fare un Luigi Di Maio con tutto il suo M5S? Siamo realisti, ma cosa possono i Di Battista, i Casaleggio, i Beppe Grillo contro una valanga che viene avanti anonima e tremenda come quella delle leggi del mercato? E’ pura utopia contrapporre la forza dell’onestà contro la forza che sviluppa il valore con disonestà, cioè con l’estorsione di plusvalore nei confronti del proletariato? Ma sul M5S ci vengo più avanti.

 

    Nazione, nazionalismo e sovranismo

   Sono lontano anni luce gli accordi di Vestfalia che sancirono la sovranità delle nazioni (1648-1659), e chi pensa di ritornarci o sogna ad occhi aperti o non conosce l’abc della storia e il suo movimento che ha l’abitudine di non tornare mai indietro.

  Proprio il grande balzo in avanti dell’Asia, di tutta l’Asia, pur se con percentuali di crescita diversi, sta dimostrando che il ruolo delle nazioni, geograficamente inteso, va modificandosi grazie al livello dello sviluppo dei mezzi di produzione e alla mondializzazione, alla rapidità dei trasferimenti delle merci da una parte all’altra del globo. Dunque alla relativizzazione della nazione geografica si affianca la “nazione” delle supply chain, che per comodità traduciamo con catena di rifornimento, dove l’entità statuale va acquisendo un ruolo non più centrale, ammesso che lo abbia mai avuto, negli scambi. E le merci corrono lì dove c’è richiesta, lì dove c’è mercato. E l’Asia è uno straordinario mercato in entrata e in uscita, con una particolarità: poco in entrata e molto in uscita e la nuova via della seta cinese sta lì a dimostrarlo. Sicché l’entità nazionale – di origine vestfaliana – viene oscurata sempre di più dall’entità commerciale, come è dimostrato dagli ultimi accordi dell’Italia con la Cina – durante la venuta a Roma del suo presidente Xi Jinping nel marzo scorso; basta guardare al riguardo alla catena di negozi di “cineserie” in Italia e al fatto che le industrie italiane si sono lamentate per degli accordi a loro sfavorevoli come la possibilità per i cinesi di partecipare alle gare di appalti per le grandi opere, mentre loro non potranno godere, al momento, degli stessi benefici. I cinesi sono asiatici, non cretini, come gli eurocentrici hanno a lungo pensato. E quelle che vengono definite primavere arabe, sono una campana a morte per tutto l’Occidente, cioè di nuovi concorrenti affamati, ma molto attrezzati, proprio perché affamati.

   Ora, spiegare a un Salvini che la sovranità nazionale come lui la sogna è che tempo perso, dunque non perdiamo tempo. Il dramma – si fa per dire – è che anche una certa sinistra rincorre la sovranità nazionale senza neppure rendersi conto di essere alla coda di Salvini che a tale riguardo parla – e sa parlare – alla pancia della gente partendo da difficoltà reali che vivono in modo particolare le periferie delle grandi metropoli, per un verso, e il ceto medio produttivo non più del solo Nord, ma di tutta Italia, per l’altro verso. Così facendo Salvini si infila in una contraddizione tremenda, che pagherà a caro prezzo in un tempo non troppo lontano, perché quando la coperta è corta non si possono finanziare contemporaneamente la grande azienda Fca-Renault, le grandi opere come la Tav e la pedemontana, per un verso, e il povero commerciante o artigiano sia del sud che del centro e nord Italia, per l’altro verso. Quello che Salvini e i salvinisti non sono in grado di capire è che la crisi della “italianità” è dipesa e dipende dalla aumentata concorrenza delle merci e questa è destinata ad aumentare sempre di più grazie al risveglio dell’Asia. E chi pensa, come Salvini pensa, e Di Maio gli tiene bordone, di ridurre le tasse alle imprese per aiutarle nella concorrenza si avvolge la corda al collo, perché costringe lo Stato a indebitarsi sempre di più per mantenere lo stato sociale: pensioni, sanità, scuola, pubblica amministrazione e così via. Quando vai in Italia meridionale a promettere aiuti alla piccola e media impresa oltre alla cacciata degli immigrati, e non riuscirai a mantenere la promessa, sarai rincorso dai forconi. In special modo proponendo l’autonomia delle regioni per favorire ancora una volta il Nord contro il Sud. Proprio per questo Papa Francesco, per la Chiesa cattolica che sa guardare lontano, si è posto in contrasto con una linea avventurista e pericolosa, ma è rimasto inascoltato, come i voti al momento hanno dimostrato. Pertanto non staremo nei panni di Salvini quando cadrà dall’alto del pennone come capitò a qualcuno ben più potente di lui.

   Mettiamo lo sguardo fuori dall’Italia: cosa ci dice questo voto europeo? Che la tanto ventilata ondata sovranista che avrebbe messo in discussione i capisaldi dell’Europa unita e dell’Euro non c’è stata. Che è prevalsa la paura e la vecchia e grande Inghilterra non sa che fare, è sballottata dall’uscita all’entrata e che i paesi sovranisti risultano essere quelli di giovane capitalismo come Ungheria e Polonia, e che la destra alla Le Pen, alla Meloni e alla Salvini guardano ai bei tempi che furono e che non ritorneranno più, ma sono costretti a comportarsi – come l’accordo Fca-Renault dimostra – da “europeisti”, cioè servi e nulla più,  mentre i popolari – con la Germania a fare ancora la parte del leone - tengono, segno che sanno che la rottura dell’Europa indebolirebbe innanzitutto proprio quella Germania che sta rallentando, perché più in alto vai più sarà verticale la caduta. 

   Diciamolo chiaro e forte: non c’è futuro per un’Europa unita e forte capace di marciare coesa contro la concorrenza asiatica e americana, del Nord e del Sud. A maggior ragione non vi potrà essere una rinnovata sovranità nazionale, cioè un nuovo nazionalismo con truppe cammellate come in passato, perché le leggi del mercato la stanno bruciando. E proprio quelle leggi aumenteranno il caos economico, politico e sociale sottraendo così ogni ipotesi di regolamentare l’economia. Anche perché si profila un’aggravante: meno ricettiva sarà l’Asia, da un lato, e l’America nel suo insieme nei prossimi anni, più aumenterà la concorrenza tra i paesi europei e meno saranno capaci di sviluppare l’ardito nazionalismo salviniano e lepenista.

   E la Sinistra? Sta nella scia delle buone intenzioni capitalistiche, ecco perché questa è una domanda priva di senso. Diciamola tutta: si tratta di vecchia ferraglia arrugginita che neanche lo stracciarolo raccoglierebbe per trasportarla in fonderia. Che vuol dire oggi sinistra se manca l’attore principale per esprimerla, cioè quel proletariato che, minacciato e ricattato dalla crisi, si aggrappa smarrito al proprio capitale-capitalismo nazionale, internazionale e transnazionale, attratto cioè da quelle famose supply chain (catene di rifornimento)? Ecco il vero dramma, ecco la crisi vera del comunismo che ha puntato su uno schematismo meccanico di due classi per trasferire a quella sfruttata la proprietà dei mezzi di produzione; illudendosi e illudendo che così facendo si sarebbe spianata la strada al socialismo e al comunismo, mentre Rosa Luxemburg introdusse il dubbio, molto serio, sulle classi intermedie e Bucharin soffermò la sua attenzione sulla complementarietà del modo di produzione capitalistico. L’è tutto da rifare, scrisse Gramsci sul finire degli anni ‘20, e mai frase fu più appropriata.

   Il Movimento Cinque Stelle e le sue difficoltà

   Prima di esaminare più da vicino le difficoltà del M5S corre l’obbligo di dire che siamo in presenza di una situazione molto fluida, proprio per questo sono fluidi – e lo saranno sempre di più – sia i movimenti che i loro leader; basta guardare agli ultimi anni: si sono bruciati partiti e movimenti con la velocità della luce. Sono transitati milioni di voti da una parte all’altra. Ciò detto, non sono interessato a sparare sul pianista, per mia fortuna non sto nei panni di Di Maio, come di nessun’altro dei dirigenti di questo movimento.  E aggiungo: chiunque pensa di aver potuto fare meglio al posto suo è arrogante e presuntuoso, si comporta come il tifoso al bar dello sport che critica il centravanti che ha sbagliato una rete sotto porta. Mi sia consentito di dire che prendersela con un povero disgraziato di 32 anni, animato da buona volontà, che preso dall’entusiasmo per essere arrivato così in alto e allevato allo spirito di onnipotenza, è abbastanza squallido. Gli squali del giornalismo e della politica dopo una campagna forsennata contro il M5S passano all’incasso. Squallidi erano prima e tali rimangono dopo, ma hanno ottenuto quel che volevano: mettere in grave difficoltà un giovane movimento che la crisi capitalista ha portato sulla scena politica. Non sono stato un loro simpatizzante prima e non gioisco oggi che hanno preso una brutta batosta. Era scritto nel suo dna, cioè nel suo essere un movimento composito contro una situazione in continua evoluzione. Il suo futuro è molto, molto incerto. Chi vivrà vedrà.

   Nella prima pagina ho cercato di tracciare a grandi linee cosa è il M5S, un movimento composito e sprovveduto con le caratteristiche del dilettante allo sbaraglio, per un verso, e dell’apprendista stregone, per l’altro verso. Cerco di spiegare il senso che poi dà origine alle difficoltà cui è andato incontro e di cui in tanti già recitano il tanto auspicato de profundis.

   Riavvolgiamo il nastro al 4 marzo del 2018, per capire la natura di un movimento spurio e analizzare il suo dna anticipato nella prima parte di questo lavoro.

   Prima del voto, alla domanda furba e ingannevole della stampa: «con chi vi alleereste se non doveste arrivare alla quota del 40% per ottenere il premio di maggioranza e formare da soli il governo», veniva risposto da tutti i militanti: «chiederemo l’incarico per formare il governo, ci presenteremo alle camere e chiederemo la fiducia sul nostro programma», una posizione, dal punto di vista formale, ineccepibile, oseremmo dire rivoluzionaria, ovvero la voce del popolo che chiede di governare secondo i suoi dettami. Basta con gli intrallazzi e le intermediazioni dei politici che si prestano alla corruzione, deve governare il popolo.

   Vincono le elezioni, non gli viene affidato l’incarico per i grandi giochi di palazzo, e il gruppo dirigente minaccia la mobilitazione di piazza sotto palazzo Chigi e quello del Quirinale perché – si disse – in questo modo si abolisce la democrazia, è inutile votare e addirittura si minacciò l’impeachment per il presidente della Repubblica Mattarella che fu costretto a fare marcia indietro, liquidare l’ipotesi Cottarelli per un governo elettorale e a dare l’incarico a Conte, nominato dallo “strano” connubio Lega di Salvini e M5S. Altrimenti detto: il nuovo, espresso dalle urne, contro il vecchio, castigato dalle stesse. Ma il nuovo, pur avendo delle caratteristiche similari, cioè di essere espressione della ribellione del ceto medio, della precarietà e della disoccupazione, proprio perché si trattava in entrambi i casi di movimenti compositi, sarebbe andato incontro a difficoltà di governare un paese grande come l’Italia con una crisi economica paurosa e un debito che continua a crescere.

   Domanda: perché il M5S arretra dalla posizione politica di principio di chiedere l’incarico e presentarsi alle camere e chiedere la fiducia sul proprio programma? La risposta è contenuta nella natura del movimento, cioè di essere un apprendista stregone che ha evocato gli spiriti, «mobilitazione di piazza e impeachment per il presidente della Repubblica», e temendo che essi si potessero veramente presentare, cioè una piazza mobilitata e un’avventura che non si è capaci di dirigere, si fa un passo di lato, verso chi è a lui simile, verso il nuovo, il Contratto con la Lega di Salvini. Un dramma annunciato. Il perché è presto detto: bisogna portare avanti la volontà popolare del nuovo contro il vecchio e la volontà dell’onestà a fare da forza trainante per il cambiamento.

   Trattandosi, come detto, di un movimento giovane ha in sé la caratteristica anche del dilettante allo sbaraglio, del giovane brillante – e nessuno più di Di Maio lo poteva interpretare – che una volta assunto il “potere”, ha pensato di poter cambiare il mondo. Ora va detto che la carica di presidente o di vicepresidente del consiglio dei ministri, è un potere fittizio, perché il potere, quello vero, come si è qui cercato di dimostrare, ce l’ha il capitale, cioè l’insieme del capitale piramidale alla cui base stanno i ceti rappresentati da Salvini e Di Maio e dunque la  cui ribellione è destinata a subire obtorto collo la forza maggiore della legge di gravità della grande industria, come l’accordo Fiat-Renault sta a dimostrare, e che si riverserà sui partiti politici che hanno espresso le rivendicazioni del ceto medio compositamente inteso e proprio per questo destinato a frantumarsi in ambedue gli schieramenti, la Lega e il M5S.

 

   Tornando perciò alla natura del M5S e al suo dna dico che la sua debolezza consiste nella debolezza di chi vota, cioè dei rappresentati e che i rappresentanti interpretano. Al riguardo citiamo due episodi: a) la marcia indietro dalla minacciata mobilitazione di massa per la formazione del governo dopo le elezioni del 4 marzo 2018; b) lo spavento avuto dall’incontro con alcuni esponenti dei Gilet gialli, dove non vi fu nessuna protesta sulla retromarcia nella base da parte del gruppo dirigente. Dunque anche in questa seconda occasione Di Maio rappresentava l’orientamento degli elettori, coerente con tutto il gruppo dirigente del movimento, che si sono sempre dichiarati garanti dell’ordine repubblicano e della civile convivenza. Al momento, perciò, non abbiamo la controprova, non sappiamo in che modo si comporterebbero in caso di una rivolta popolare o di scioperi improvvisi di consistenti settori operai che non si possono in alcun modo escludere e che anzi auspichiamo.

   Dall’esperienza storica ricaviamo qualche indicazione di massima: in Russia prima del 1917 il Partito socialista rivoluzionario basava il suo programma sulla necessità di sottrarre la terra ai pomesciki e assegnarla agli ex mugichi, cioè braccianti agricoli e contadini poveri. Quando però questi scappavano dal fronte e occupavano le terre per farsele assegnare, gran parte dei componenti di quello stesso partito che aveva nel programma quello che i contadini cercavano di praticare con la forza della mobilitazione, condannarono l’occupazione e si schierarono con la dura repressione governativa. Ora, non si tratta di paragonare meccanicamente due situazioni molto diverse tra loro, ma siamo portati a credere che chi troppo giura sulla democrazia, sulla civile convivenza, sulla legalità costituzionale e via di questo passo, molto difficilmente tollererebbe i “torbidi”; ma non vogliamo giurare su quel che sarà, anche perché la storia ci ha abituati a eclatanti sorprese; basta ricordare che lo stesso Lenin – contro la volontà del suo stesso partito che aveva contribuito a fondare – si schierò in modo incondizionato con la rivolta disordinata e “anarchica” dei contadini, cioè con i “torbidi” e la rivoluzione.

   Quale sarà il prosieguo del governo da parte dei due movimenti? La risposta è già scritta: ci sarà una corsa a ostacoli per accaparrarsi i favori della Confindustria e dell’establishment con la Lega che porterà in dote la propria ideologia produttivistica, dunque le grandi opere, la riduzione delle tasse o addirittura la flat tax. Mentre aumenteranno oltre misura le difficoltà per il M5S dopo la fuga di una quota consistente proprio di piccole e medie imprese meridionali verso la Lega. Sicché la sola dote dell’onestà e della lotta alla corruzione e l’appoggio critico alle grandi opere con l’alibi che erano state decise prima che si formasse il governo giallo-verde, non può rappresentare una garanzia. Si procede dunque di caos in caos. Si tratta di una tendenza che prescinde dai personaggi e che potrà essere messa in crisi solo da una mobilitazione di massa, che non è affatto da escludere. E sarebbe molto, ma molto diversa per qualità da quella del 12 novembre del 1994 che mise in crisi il governo Berlusconi-Bossi e diede vita al governo Dini. Ma che al momento non si intravvedono i presupposti.

 

Conclusione

a)     In Italia come nel resto d’Europa si sta aprendo una fase economico-sociale dagli sviluppi imprevedibili, dove gli Stati nazionali vanno perdendo di sovranità a favore di meccanismi economici transnazionali; e si va sviluppando una sorta di movimento centrifugo delle stesse aree geografiche rispetto al centro, come in Italia per le regioni del Nord-Est o la Catalogna in Spagna, tanto per fare solo qualche esempio;

b)    I poteri forti, la grande industria, la finanza, le banche condizioneranno enormemente i ceti medi e tenderanno alla loro dissoluzione;

c)     I ceti medi, proprio per la loro caratteristica impotenza sono destinati a frantumarsi e sottostare ai ricatti dei poteri forti;  

d)    I partiti che si autodefiniscono sovranisti sono l’espressione delle difficoltà dei capitalismi nazionali; e specialmente se espressione del ceto medio come la Lega di Salvini, o il movimento della Le Pen in Francia, non potranno in alcun modo giocare un ruolo importante nel caos generale che va aumentando grazie alla concorrenza asiatica e americana e saranno costretti obtorto collo a giocare il ruolo di truppe cammellate e sottostare ai voleri della grande industria, proprio come sta accadendo in questi giorni per Fca-Renault e il governo giallo-verde. Si tratta di una contraddizione insuperabile. Così facendo aumenteranno il caos perché non si intravedono possibilità di ripresa per un ritorno allo status quo ante;

e)     I movimenti politici di nuova formazione, M5S, Gilet gialli, Podemos, Tsipras e via dicendo avranno vita breve perché la fase è fluida e non vi può essere nulla di stabile; tanto vale per i movimenti popolari, che solo per comodità definiamo, di sinistra, quanto quelli di destra, come la nuova Lega di Salvini, cioè l’altra faccia della stessa medaglia di quella bossiana.

f)      La caratteristica fondamentale del ceto medio produttivo e commerciale rappresenta una variabile impazzita che si gonfia a dismisura durante la crescita dell’accumulazione capitalistica per diventare ingombrante nella crisi e inferocirsi in modo hobbesiano contro tutto e tutti.

g)     Mentre la caratteristica del ceto medio non produttivo e non commerciale, ma acculturato e tradito nelle sue aspettative dal modo di produzione capitalistico, rivendica “con forza” un proprio ruolo sbattendo la testa contro il muro della politica proprio perché incapace di affondare la sonda in profondità nella crisi del modo di produzione, come è il caso del M5S e di parte del movimento dei Gilet gialli.

h)    Per quanto riguarda il proletariato industriale propriamente detto, non esiste al momento alcuna possibilità per la costituzione di un partito comunista mondiale, perché la classe operaia è troppo assorbita nel vortice infernale della concorrenza e incapace di sottrarvisi proprio perché vive una condizione di complementarietà. Le sparute lotte che si sviluppano qua e là nei continenti non forniscono ancora elementi di una tendenza destinata a rafforzarsi.

 

Infine qualche risposta alla impaziente domanda: che fare?

   Conoscendo un certo modo di leggere gli articoli da parte dei militanti di sinistra, specie se di “alto profilo”, sono portato a credere che si scorreranno i titoletti e ci si soffermerà sulle conclusioni liquidando con superficiale saccenteria “l’esasperato oggettivismo” o il “determinismo meccanicista”. Non questo mi preoccupa, sono inarrendevole perché confortato dai fatti, e guardo oltre il momento contingente. Inoltre sono ottimista almeno quanto Giacomo Leopardi de La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, e convinto che sapendo seguire il vento nuovo che emerge dalla crisi, senza presunzione di voler imporre il proprio ideale, si possa dare, nonostante tutto, un contributo serio alla causa rivoluzionaria.

 

Pertanto direi di:

a)      Abbandonare un certo provincialismo e guardare in che modo si muove l’insieme del capitale mondiale;

b)      Abbandonare lo schema otto-novecentesco che poneva la classe operaia come rivoluzionaria e capire che il soggetto della rivoluzione è la crisi del capitalismo per sue immanenti contraddizioni di sistema;

c)      Evitare di voler emulare il capitalismo proponendo nuovi modelli di sviluppo e strutture ad esse confacenti;

d)     Non rincorrere il ceto medio, specie se popolare, sul suo terreno perché non c’è nessuna possibilità che sostituisca la classe proletaria come nuovo soggetto capace di trasformare la società capitalistica e farla funzionare in modo più equo;

e)      Non rincorrere il popolo in modo particolare nelle sue cadute peggiori, come in questo periodo, sul razzismo, nazionalismo e sovranismo;

f)       Sostenere tutte quelle iniziative di lotta dei settori proletari che possono fungere da granelli di sabbia nel meccanismo dell’accumulazione e della concorrenza, come precondizione di una riorganizzazione di file operaie e proletarie;

g)      Sostenere la lotta degli immigrati, ma non lo scopo di intermediazione burocratica al servizio di sua maestà il capitale, c’è già la chiesa cattolica e le Ong al riguardo;

h)      Evitare di fare proclami che non hanno nessuna aderenza con l’umore reale dei lavoratori;

i)        Evitare una battaglia ideologica in modo particolare in presenza di lotte proletarie;

j)        Rimuovere la voglia di fare proposte avveniristiche come nuovi modelli sociali;

k)      Stare sempre sul concreto, ricordarsi che il soggetto è in primis il movimento dell’insieme del capitale e coerentemente a ciò il proletariato è costretto a guardare ad esso come i girasoli guardano al sole, dunque a relazionarsi cum grano salis.

 

   Poche e semplici tesi che sintetizzano l’osservazione dei fatti e la loro proiezione, cioè la tendenza che innesca e che ci consegna uno scenario abbastanza interessante. Avendo sempre presente che il comunista è innanzitutto cervello oltre che passione che può essere utilizzato dal movimento di massa. E’ colui che cerca di capire la tendenza del movimento storico con la stessa lucidità di Rosa Luxemburg che sosteneva: «Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. Soprattutto la psiche delle masse racchiude in sé, come “thàlatta”, il mare eterno, tutte le possibilità allo stato latente: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abbietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche, ed è sempre sul punto di diventare qualcosa di totalmente diverso da quello che sembra». Guardando all’oggi possiamo dire con fierezza insieme a lei che mai concetto fu più preciso. Avrebbero di che imparare tanti intellettuali e filosofi da strapazzo invaghiti della volontà di correggere il capitalismo e corrono al suo capezzale con proposte stravaganti senza aver capito il fulcro su cui ruota il meccanismo infernale del modo di produzione capitalistico, che Marx nel Capitale indicava come movimento storicamente determinato e impersonale.

   Per essere sempre chiari e stare al presente: chi si è troppo infervorato per il successo del M5S oggi si deprime per la sua sconfitta. Chi lo ha messo sullo stesso piano della Lega è costretto a riflettere e a leggere meglio cosa muove chi. Chi lo ha rincorso nel tentativo di utilizzarlo “tatticamente” ha di che ricredersi; bisognerebbe sempre ricordarsi che in politica, in modo particolare quella rivoluzionaria, la furbizia non paga. Lo slogan “Il M5S vince sempre e non perde perché impara” coniato ultimamente rappresenta un’ulteriore prova di buoni propositi, un’ulteriore illusione di recuperare il terreno perduto.  Una illusione che i suoi elettori continueranno a coltivare e dovranno purtroppo bruciare nell’accadere dei fatti.    

   Chi invece ha saputo leggere il M5S come movimento spurio, composito e in quanto tale privo di prospettiva, oggi riesce a inquadrare la sua sconfitta con razionalità continuando a seguire le contraddizioni del movimento del capitale oltre le persone che le onde della crisi innalzano e sprofondano. Un metodo che vale tanto per il M5S quanto per la lega di Salvini e per quanti altri ad essi seguiranno in Italia e in Europa. 

   La rivoluzione ha i suoi tempi che nessuno è in grado di prevedere, ed essa si presenterà come punto di caduta dell’evoluzione storica, e come sempre sorprenderà i rivoluzionari. L’attuale tendenza al caos rappresenta l’interludio tra una straordinaria ascesa del modo di produzione capitalistico e la sua crisi destinata a farlo implodere. Se le masse proletarie piangono i capitalisti e loro lacchè non ridono.

Michele Castaldo



[1] Antonio Padellaro, Il gesto di Almirante e Berlinguer, PF Paper First, Roma 2019, p. 74.

[2] Alberto Negri, il manifesto del 29 maggio 2019, p. 14.

[3] V. E. Tarle, La classe operaia nella rivoluzione francese, Res Gestae, 2 voll., Milano 2013, II. P. 303.

[4] Filomena Greco, Il Sole 24 ore di martedì 28 maggio 2019, p. 5.

[5] Carmine Fotina, ivi.

[6] Ibid

[7] Ibid