L’uccisione di Soleimani, il generale iraniano comandante delle forze al-Quds (il corpo d’èlite della Guardia Rivoluzionaria Islamica) da parte degli Usa è il segno di un’accelerazione della crisi generale che investe il modo di produzione capitalistico in una fase cruciale.

   La storia dell’uomo è caratterizzata dal principio di Hobbes: homo homini lupus, cioè l’uomo è un lupo nei confronti di un altro uomo, non riesce, perciò, in alcun modo a vedere in un altro uomo un proprio simile, nel suo simile, dunque non cerca di stabilire con lui un rapporto di armonia, ma di aggressione e di concorrenza, cioè cerca di prevalere. Seguendo questo principio l’uomo è arrivato

a sviluppare un moto-modo di produzione che dopo una straordinaria ascesa si avvia al suo declino, perché non riesce più a sviluppare lo stesso valore di un tempo e nella folle corsa per tenersi in vita semina morte e distruzione.

   I fatti di questi giorni sono la conseguenza meccanica degli ultimi 40 anni, ovvero dalla rivoluzione antimperialista in Iran del 1979, che rischiò di incendiare tutto il Medio Oriente, coinvolgendo centinaia di milioni di esseri umani. Ma proprio l’homo lupus – in quel caso yankee – spinse Saddam Hussein a uno scontro armato contro l’Iran per evitare che si estendesse la rivoluzione islamica e che si rafforzasse una nazione e uno stato di un paese ricco di petrolio e di altre importanti materie prime. Dopo 8 lunghi anni di guerra e un milione di morti, Saddam Hussein pensò bene di passare all’incasso per aver agito anche pro domo sua, pretendendo di gestire il prezzo del petrolio e al rifiuto della Casa Bianca e di tutti gli altri paesi occidentali, invase il paese fantoccio del Kuwait, per cui tutto il mondo occidentale intese dare una dura lezione al “pazzo” che aveva osato sfidare il mondo “civile”. A più riprese l’Occidente, al seguito degli Usa, tentò di disgregare e smantellare lo stato unitario dell’Iraq imponendo uomini fidati, mezzi militari e soldati per controllare il commercio dell’oro nero; altrimenti detto: per continuare la rapina imperialistica.

   Certi storici e analisti hanno la memoria corta, la stessa memoria che ha il capitale, capace di “ragionare” sulla distanza dello spazio temporale del proprio naso. Mentre per certi marxisti la storia si ripete sempre uguale a sé stessa. Basterebbe solo osservare i fatti, notare cioè la differenza tra l’azione delle masse diseredate in più continenti che esultarono quando Saddam Hussein annesse il Kuwait all’Iraq, sfidando così l’Occidente, mentre l’uccisione di Soleimani ha suscitato un imponente sdegno ma solo in Iran. Come mai, perché? Ecco, basterebbe solo rispondere a questi interrogativi per capire che siamo entrati in un’epoca diversa da quella degli anni ’60 e ’80 del secolo scorso e il ruolo che giocano certi paesi, come l’Iran, per non parlare di Cina, India, Russia, Brasile e via di questo passo è diverso di quello di allora. Diverso perché il modo di produzione capitalistico ha fatto dei passi in avanti nel suo insieme contribuendo ad arricchire di quantità e qualità l’insieme dei mezzi di produzione, di conseguenza ha aumentato in modo parossistico la concorrenza sia dei mezzi di produzione che delle merci, compresa la merce operaia e di riflesso impoverendo oltremodo masse sterminate fra le nuove generazioni in modo particolare nei paesi di giovane capitalismo. Insomma un quadro cupo dal futuro nero.

   Come si colloca l’uccisione del generale Soleimani in questo quadro? Nella necessità da parte degli Usa di frenare la crescita esponenziale che ha avuto e sta avendo l’Iran, nonostante tutte le difficoltà provocate dagli embarghi. La sua sete revanscista tanto nei confronti degli stati imperialisti come gli Usa quanto nei confronti dei paesi dell’area mediorientale ricchi delle sue stesse risorse energetiche, rappresenta un forte elemento di disturbo in modo particolare con l’avanzare della crisi, perché in gioco c’è sempre il petrolio, il suo prezzo, il suo trasporto, il suo commercio, la sua lavorazione. È del tutto evidente che i paesi di giovane capitalismo per poter conquistare quote di mercato lo devono fare a spese delle masse proletarie e diseredate, alimentando illusioni nel ceto medio che non potranno soddisfare. Sicché si compone una miscela esplosiva contro la corruzione interna dei propri governanti, costretti ad applicare le ricette che impone il Fondo Monetario Internazionale e contro l’arricchimento di una parte della società estromettendo la gran parte di essa. Si spiegano così le mobilitazioni dell’ultimo periodo in molti paesi del Medio Oriente e del Sud America.

   Soleimani era il comandante di un esercito di uno stato e di una nazione di 80 milioni di abitanti, che in nome della fazione sciita dell’Islam cercava di sviluppare un potere capitalistico nell’area calpestando il principio della sovranità di altre nazioni. Finendo col passare da vittima a carnefice dei propri simili.  Di uno stato e di una nazione che per sviluppare l’accumulazione ed estendere il proprio dominio doveva reprimere duramente la protesta al proprio interno di affamati e poveri disgraziati. Tutta l’area medio orientale è in subbuglio e chi si comporta come si comportava Soleimani, cioè il governo iraniano, mostra di stare non proprio dalla parte della rivoluzione. Può un artefice della rivoluzione del 1979 imboccare anche la strada della controrivoluzionario 40 anni dopo? Andiamo con ordine.  

   Osservando il globo terrestre in questa fase  possiamo notare che il cuore pulsante del modo di produzione capitalistico, cioè il Medio Oriente, è in fibrillazione, e chi sognava, dopo la caduta dei regimi dell’Est del 1989 – come gli Usa e gli stati dell’Europa occidentale – una nuova Eldorado e l’eternità dell’attuale sistema sociale è costretto a ricredersi, e nel fare i conti con una situazione in continua evoluzione comincia ad avere reazioni, criminali sempre, ma scomposte, come un elefante  in un negozio di cristallerie. È esattamente quello che sta succedendo con Trump, il presidente della prima economia mondiale, che passa con disinvoltura dalla costruzione di un muro al confine ai dazi nei confronti della Cina, all’annuncio del ritiro delle proprie truppe dall’Afghanistan all’uso del terrorismo islamico, dall’uso dei curdi contro l’Isis alla loro consegna all’esercito turco e via di questo passo. Ma – ecco il punto centrale su cui riflettere – tutto ruota sulla necessità di appropriarsi delle fonti energetiche, ovvero la materia prima che manda avanti l’intero sistema. Si tratta di una guerra di tutti contro tutti, dove un paese come l’Iran ricco di petrolio vuole scalare le gerarchie del modo di produzione e nel farlo deve sgomitare non solo nei confronti dei paesi dell’area, ma anche, e per certi aspetti soprattutto, nei confronti dei paesi economicamente più forti sì, ma in fase declinante, come gli Usa, magari cedendo sullo sviluppo dell’uranio – come gli accordi del 2013 e del 2015, e sottrarsi così alle sanzioni ed estendendo la propria influenza nei paesi limitrofi come in Iraq, Siria, in Libano, e arrivare al Mediterraneo. Con quale arma? L’unità degli sciiti dell’area. Ma l’insieme del comportamento del capitalismo iraniano per poter essere attuato richiede un costo altissimo che viene scaricato su milioni di persone, che si stanno ribellando e il governo, per conto del proprio capitale, non può fare a meno di agire con durezza reprimendo ogni mobilitazione. Sono perciò lontani anni luce i giorni dell’insurrezione del 1979, cioè di un popolo unito contro l’imperialismo e nella guerra contro l’Iraq. È questo che non capiscono certe correnti marxiste occidentali che guardano all’Iran come se 40 anni fossero passati invano. Non è così. La religione, per quanto affabulante da un punto di vista spirituale, non può costituire una nazione e uno Stato. Chi dovesse prendere ad esempio lo stato di Israele si sbaglierebbe e non di poco, perché alle spalle di quel minuscolo stato c’è la potenza economica e finanziaria degli Usa. Esso fu costituito come testa di ponte degli occidentali contro i paesi dell’area, un vero e proprio gendarme per gestire le materie prime dell’intera regione. Mentre gli altri stati, e in modo particolare l’Iran, rappresentano nei fatti i suoi antagonisti e l’Iran l’antagonista principale. 

    Trump esce dall’accordo sul nucleare e l’Iran minaccia di aumentare l’arricchimento dell’uranio come in una partita a scacchi, per obbligare gli europei sostenere la sua causa contro le sanzioni. Tutto ruota perciò intorno alla materia prima di cui gli europei, la Cina e l’India hanno assoluto bisogno e che gli iraniani vogliono sfruttare per approvvigionarsi delle tecnologie provenienti dal vecchio continente in una crisi senza via d’uscita.

   Nei talk show italiani di questi giorni, dopo l’azione di Trump e l’uccisione di Soleimani, si dibatte sulla Libia, sulle sue contraddizioni interne, sullo scontro tra le due fazioni, quella tripolitana  e quella cirenaica per il controllo dell’estrazione e della vendita di gas e petrolio.

   Questo martoriato paese è stato investito appieno dalla crisi del sistema capitalistico al punto che non avendo la forza di opporsi unitariamente alle pretese, alle minacce e alle aggressioni degli occidentali, ha ritorto al proprio interno le contraddizioni spaccandosi in due fazioni, contrattando la vendita delle proprie risorse non più come governo unitario centrale, ma come fazioni; come dire: meglio due morti che un ferito.     

Sull’onda delle difficoltà interne della Libia la Turchia cerca di approfittare della situazione per inviare proprie truppe per controllare l’estrazione e la vendita del petrolio, sognando magari di ritornare ai fasti del passato come impero ottomano, suscitando nel suo popolo lo spirito revanscista mai morto. E la Russia cerca di fare altrettanto per sottrarre un concorrente scomodo in un’area strategica del mercato mondiale. Mentre l’Italia si lamenta perché il “suo cortile di casa” viene occupato da estranei. E qualcuno giustamente fa rilevare che per conquistare posizioni sul campo bisogna inviare uomini a morire e i giovani italiani hanno tutt’altre voglie che andare a morire per il petrolio.

   Cerchiamo di trarre alcune conclusioni politiche dall’analisi dei fatti, inserendoli in un percorso storicamente determinato, dialogando con chi è disposto ad ascoltare senza i paraocchi ideologici di certe correnti che si richiamano al marxismo.

   Rosa Luxemburg, con il testo L’accumulazione del capitale, pubblicato nel 1913, e in modo particolare nell’Anticritica che seguì, mette bene in luce la questione centrale del modo di produzione capitalistico: esso può esistere solo e finché esistono zone non capitalistiche o precapitalistiche. Questa tesi di fondo portata alle estreme conseguenze suona così: venendo a mancare queste aree che sono vitali per il modo di produzione capitalistico, il sistema crolla.

   È del tutto evidente che alcuni paesi maggiori, colonialisti prima e imperialisti poi, per continuare a sviluppare valore, cioè a estorcere plusvalore, avrebbero dovuto mantenere in condizioni di pre-capitalismo intere aree, ma non è stato possibile proprio per la ragione che spiegava Rosa L., perché il capitalismo funziona per leggi proprie ed asservisce a quelle leggi la volontà degli uomini. Sicché non puoi pretendere – tu governo e stato colonialista e imperialista – di mantenere in una condizione non capitalistica una nazione o addirittura un’area geografica, perché quelle leggi ti portano a sviluppare ulteriori mezzi di produzione e con essi a sviluppare le classi sociali dello stesso, come è successo per l’Occidente, lì dove è nato il modo di produzione capitalistico. Altrimenti detto: non puoi costringere una nazione a estrarre petrolio, sviluppare il mercato dell’auto e delle materie plastiche e venderle sono in Occidente. Sarebbe stato un non senso storico, confermando la massima che il modo di produzione si è comportato come l’apprendista stregone: ha evocato gli spiriti che gli si stanno rivoltando contro.

   Dal momento che le leggi del capitale subordinano la volontà degli uomini non possiamo pensare che funzionino solo in Occidente, ma in tutto il mondo dove ormai vige il capitalismo e si sviluppano classi che dominano altre classi, con le stesse aspirazioni per oltre 5 secoli hanno dominato in Occidente. È una semplice legge meccanica che si estende a macchia d’olio per poi, a un certo punto implodere.

   Ora, per tornare all’uccisione di Soleimani, il governo iraniano una volta raggiunta la sovranità politica ha cercato e cerca di accrescere le sue potenzialità capitalistiche, al pari di tutti gli altri paesi e popoli che un tempo erano oppressi e dominati dal colonialismo. Lo fa con le armi in suo possesso, cioè con le risorse energetiche che cerca di sfruttare al massimo grado in concorrenza sia con gli altri paesi possessori di materie prime, sia nei confronti dei paesi che hanno una maggiore potenza industriale e una maggiore forza politica e militare.

   Veniamo alla questione cruciale che come corrente ideale che si richiama al comunismo ci interessa da vicino. La domanda è: esiste la possibilità che una borghesia nazionale di un paese oppresso possa svolgere un ruolo rivoluzionario per sottrarsi alle grinfie coloniali? La risposta sarebbe sì a una sola condizione: che sia costretta ad appoggiarsi alla mobilitazione di massa per conquistare la sovranità e l’indipendenza politica. Si tratta di una impostazione “corretta”, ma fino a un certo punto, ovvero fino a quando un paese come il Vietnam, tanto per fare un esempio classico del ‘900, dovendo lottare contro l’occupazione americana, faceva leva sul popolo contadino, che costituiva la maggioranza di quel paese, per sconfiggere l’invasore. Ma non fu rivoluzionaria la borghesia, no, fu rivoluzionario il popolo contadino che difendeva il proprio suolo. Non diversamente andarono le cose per la Cina. Insomma la sovranità politica come base per la trasformazione del paese da agricolo in industriale e entrare a pieno titolo nel mercato mondiale delle merci la conquistano le masse in lotta.

   La differenza tra quegli anni e questi, sta nel fatto che oggi tutta l’Asia è divenuta capitalistica, entrando con le sue merci nel mercato mondiale. Si tratta di una vera e propria guerra di tutti contro tutti per conquistare quote di mercato nei confronti dei concorrenti. Questa ebollizione del sottosuolo provoca scossoni in superficie che si manifestano in mille modi secondo la forza che hanno le varie componenti in competizione: dalla presenza di truppe in territorio straniero, alla costruzione di muri, all’introduzione di dazi doganali, alla corruzione, al terrorismo, nel tentativo di competere sia come unità statale che come gruppi di area, nel caso del terrorismo islamico.

   Verso quale prospettiva sta andando il modo di produzione capitalistico? È necessario tentare di rispondere a questo interrogativo con distacco emotivo per sviluppare un punto di vista rivoluzionario, per evitare di ritrovarci impantanati a rimorchio di situazioni senza via d’uscita.

   Di certo va condannato senza appello l’atto criminale degli Usa con l’uccisione di Soleimani e della sua scorta, ma dobbiamo sapere che si tratta di un gesto che avrà delle ripercussioni ovvie per le ragioni che sin qui abbiamo cercato di esaminare. Altrettanto certamente va condannata la guerra tra le due fazioni in lotta in Libia e le aspirazioni turche, russe ed europee, e in primis quelle dell’Italia fra esse. Ma dobbiamo sapere fin da subito che è tempo perso perché la crisi spinge da ogni dove a una guerra di tutti contro tutti.

   Ora vediamo la differenza con il passato, nella fase in cui il modo di produzione cresceva, il comunismo si schierò senza esitazione dalla parte dei popoli che rivendicavano a giustissima ragione la propria sovranità nazionale per sottrarsi alla morsa coloniale e entrare a pieno titolo nel modo di produzione capitalistico che ascendeva. Oggi che questo modo di produzione va concludendo la sua corsa ci si può schierare nella stessa maniera? Perché se dovessimo prendere ad esempio quello che sta accadendo in Iran, cioè che una fazione capitalistica nazionale, o una borghesia se così si preferisce, per espandersi è costretta a reprimere i movimenti di massa al suo interno e ravvivare il sentimento revanscista del ceto medio, pur se intorno ai valori dell’Islam sciita, come ci poniamo?

   Se è vero che l’Iraq nel 1990 si annesse il Kuwait è altrettanto vero che né Saddam Hussein, né le altre borghesie dell’area raccolsero la volontà popolare di una guerra antimperialista nell’area e quando nel 2003 fu chiusa la morsa intorno all’Iraq non ci fu nessuna sollevazione popolare in sua difesa. Questa fu la dimostrazione chiara e tangibile che: a) le borghesie dell’area come tutte le borghesie del mondo sono portate a difendere solo gli interessi del proprio capitale in competizione con gli altri; b) non esiste in nessun modo la possibilità che si sviluppi un movimento di massa antioccidentale di area perché esso è fortemente inquinato dai valori capitalistico-borghesi. Insomma il capitalismo ha fatto piazza pulita di ogni residuo mercantilistico precedente e si è imposto in maniera assoluta come movimento d’assieme di classi complementari distribuiti nazionalmente. Non a caso oggi il popolo iracheno rivendica la cacciata di tutti gli eserciti stranieri, compreso quello iraniano di religione sciita. Per questa ragione non è ipotizzabile un fronte di guerra dei paesi arabi e islamici contro l’Occidente, perché ogni paese si pone in concorrenza innanzitutto con il proprio simile piuttosto che affrontare insieme la potenza maggiore dei paesi occidentali.        

   Il nostro Manifesto politico resta Proletari di tutto il mondo unitevi, dunque Contro la guerra nazionalistica per la rivolta degli oppressi e sfruttati, come ci comportiamo di fronte al ricatto revanscista – impossibile a darsi, per le ragioni esposte - che chiama alla guerra contro l’impero del male, cioè l’insieme (e non a tutti i torti) dell’Occidente, ovvero l’insieme dei paesi ex colonialisti?

   A mio modestissimo parere un nuovo movimento che in qualche modo possa orientarsi verso i valori del comunismo può darsi solo dalla decomposizione del modo di produzione capitalistico oggi più vicina che nel ‘900.

   C’è, come sempre, la solita domanda in filigrana: si, d’accordo, ma noi in che modo ci schieriamo?

Sia detto senza troppi giri di parole: condanniamo senz’appello il modo di produzione capitalistico e le forze sociali e politiche che apertamente lo difendono e per esso si battono. Questo vuol dire non legarsi a ogni umore popolare ma a quello che più si avvicina ad una prospettiva di rottura del modo di produzione. Tanto per fare un esempio che abbiamo sottomano in questi giorni: le mobilitazioni in Cile e quelle in Iran, prima dell’uccisione di Soleimani, hanno una impronta oggettiva che va nella direzione della rottura del modo di produzione, mentre quelle di protesta per l’uccisione di Soleimani, che hanno il chiaro stampo revanscista, vanno nella direzione opposta, tendono a rafforzare un potere capitalistico all’interno di un quadro generale caotico che può sfociare in una guerra fra contendenti e imporre uno schieramento nazionalistico tutto a detrimento della ribellione popolare. Tradotto in soldoni questo vuol dire che lo sviluppo di movimenti di massa contro le varie fazioni capitalistiche, o borghesie nazionali, altrimenti detto, può evitare la guerra e ricongiungersi in un movimento proletario internazionale. È l’unica prospettiva per la quale i comunisti avrebbero una propria ragion d’essere. Diversamente, come pensano molte organizzazioni di sinistra, uno schieramento “terzomondista” composto magari da Russia, Cina, India, buona parte dei paesi mediorientali e di alcuni grandi paesi latinoamericani, contro gli Usa aprirebbe la strada “finalmente” a un nuovo corso del capitalismo di cui il proletariato potrebbe approfittare per dare l’assalto rivoluzionario. Si tratta di un’ipotesi da visionari che non tiene in conto la vera natura del modo di produzione capitalistico, perché il capitalismo non è solo Usa- come pensano molte organizzazioni di estrema sinistra - e nemmeno solo Occidente. Ma è un movimento storico retto dalle stesse leggi che insieme si tiene o insieme non si tiene.      

   La lotta antimperialistica diretta dalle fazioni capitalistico-borghesi come nel caso in specie dell’Iran – proprio perché è lotta di concorrenza – deve essere fatta, in modo particolare in questa fase, a scapito delle condizioni di vita delle classi meno abbienti. Non diversamente si pone la questione per i governi di sinistra, perché per combattere il nemico esterno devono castigare quello interno, cioè le masse lavoratrici, i disoccupati e gli immigrati, o il ceto medio come è successo in Venezuela tanto per essere chiari.

   L’esempio più calzante al riguardo lo possiamo leggere nei fatti del 2003, quando si temette, in Occidente, che la minaccia nei confronti dell’Iraq potesse scatenare una guerra contro il mondo islamico, con una reazione unitaria dello stesso, si diffuse in tutto il mondo occidentale la paura e si svilupparono mobilitazioni nelle maggiori città. Ma si trattava – bisogna dirlo senza peli sulla lingua – di ceto medio, cioè piccola borghesia, che scendeva in piazza per evitare di essere coinvolto in una guerra che non voleva, non a caso lo slogan era Not in my name, non in mio nome. Difatti quando si capì che lo scontro veniva circoscritto ad una criminale azione solo contro l’Iraq il movimento pacifista rifluì e non solo in Occidente.

   Comporre un popolo nazionale intorno ai valori “religiosi”, come gli sciiti, nell’età moderna in cui il capitale la fa da padrone è pura illusione. Una illusione che l’Iran rischia di pagare a caro prezzo.   

  Le organizzazioni di estrema sinistra e internazionaliste farebbero bene a trarre dai fatti storici un serio bilancio

   Diciamolo a chiare lettere: o nel caos – verso cui si sta avviando questo modo di produzione - l’insorgenza di massa ferma la guerra e lo fa infognare sempre di più trascinandolo cosi all’implosione, oppure un nuovo conflitto regionale in Medio Oriente potrebbe provocare un Terzo conflitto mondiale dagli esiti inimmaginabili e le ragioni del comunismo si allontanerebbero di chissà quanto tempo.

   Per come è dispiegato il capitalismo a questo punto del suo sviluppo potrebbe prevalere la prima ipotesi: un caos generalizzato che tende a immobilizzare l’insensatezza delle varie fazioni capitalistiche e i rispettivi governi. Non ci giuriamo, ma sarebbe la sola ipotesi che potrebbe costituire la base per lo sviluppo mondiale di un vero movimento che rompa in modo definitivo con le leggi del capitale.  

   La consegna per i comunisti è e resta: contro il modo di produzione capitalistico e la sua crisi, contro il nazionalismo e le guerre da esso prodotte: rivolta degli oppressi e sfruttati di tutto il mondo. Proletari di tutto il mondo unitevi! Proprio per evitare la guerra!

Su queste basi tendere a sviluppare un’azione di propaganda per il ritiro delle truppe da ogni dove e  di negare le basi per ogni azione di guerra.

Michele Castaldo gennaio 2020

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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