Valter Veltroni, consumato uomo politico italiano, ex sindaco di Roma nonché intellettuale e scrittore, in un fondo sul Corriere della sera di giovedì 12 marzo, in una perentoria affermazione include una capziosa domanda: «Ma questo virus - qualcuno un giorno ci dirà con certezza da dove è sbucato? – cambia la storia».

   Concediamo il beneficio della buona fede al signor Veltroni e gli consigliamo di leggere qualche buon saggio su come si sono sviluppati certi virus negli ultimi 250 anni. Potrebbe leggere qualcosa di Richard Levins, biologo, matematico e filosofo, oppure di Robert G. Wallace, sennò di Laura Spinney che scrive, tra il saggio e il romanzo, un testo di estremo interesse al riguardo. Questo, ripeto, se in buona fede intende veramente comprendere la natura di certi virus e farsi un’idea più precisa da dove potrebbe provenire l’attuale coronavirus. Se in malafede, lo lasciamo in balia degli eventi e in compagnia della sua ignoranza.

   Ma a parte il dubbio sulla provenienza del virus, a Valter Veltroni va riconosciuto il merito di una intuizione brillante

, quando afferma: «Ma questo virus cambierà la storia». Si, questo virus cambierà la storia, dunque la percezione è che ci troviamo di fronte a un fatto storico straordinario. 

   Dal momento che Veltroni non è uno qualsiasi e ancor meno lo è il Corriere della sera, giornale storico della borghesia italiana, dobbiamo dedurne che sua eccellenza l’Establishment sta tremando di fronte a un fenomeno con caratteristiche poco controllabili e poco gestibili; e che per esorcizzare la paura comincia a pensare al «dopo-virus», cercando di farsi coraggio dando fondo alle proprie risorse di ottimismo italico.  Diamine, siamo un grande paese con una storia straordinaria alle spalle!

   Dunque «sursum corda»! 

   In che modo pensare al «dopo-virus»? Scrive ancora Veltroni: «Questa crisi chiama in causa il mondo intero. […] perché esiste, nelle società moderne, una “comunità di destino”, che ci lega, indissolubilmente, l’uno all’altro». 

   Si, è vero, esiste una comunità di destino, ed è altrettanto vero che ci lega l’uno all’altro, ma con ruoli e condizioni diverse. E allora, come la mettiamo? Il destino ha prescritto che il mondo debba sempre continuare a essere capitalistico, devono sempre esistere lo sfruttato e lo sfruttatore, l’oppresso e l’oppressore, chi si strasazia in vizi e chi muore di fame?      

   Veltroni avanza deciso sul che fare: «Ci vorrà un governo mondiale!», alla faccia del bicarbonato di sodio, avrebbe detto Totò, questo Valter è diventato internazionalista; vabbé le sue origini, ma il mondo è cambiato e lui invece di andare avanti è tornato indietro? Vuoi vedere che questo sotto sotto pensa ancora al comunismo?

   Ma Veltroni tranquillizza subito il “monarchico” Totò e traccia il suo programma (sempre quello dell’establishment, beninteso): un governo mondiale si, «che faccia ripartire l’economia, che immetta denaro pubblico per dare ossigeno all’impresa e al lavoro, che aiuti le famiglie con forme nuove di fiscalità, di sostegno alla salute e alla formazione diffusa. Un nuovo mondo, perché nulla sarà come prima. L’Europa farà bene, presto, ad accorgersi che il tempo del freno a mano è finito». 

    Ma allora siamo alla solita storia, caro vecchio volpone! Per lor signori la storia si deve ripetere sempre uguale a sé stessa, allora veramente il coronavirus sarebbe un piccolo incidente di percorso superato il quale tutto torna come prima? Se è così, in che senso cambia la storia con la comparsa di questo virus? Ecco un primo esempio di cos’è l’uomo capitalistico. Lo pensa solo Veltroni e l’establishment mondiale di tutte le latitudini? No, è senso comune che il capitalismo è un fenomeno naturale, è l’uomo che come specie si identifica con un modo di produzione, insomma è l’homo capitalisticus, fiero, fino a ieri e che si illude, perché dotato di ragione e di parola, di proseguire a “dominare” – cioè rovinare - il resto della natura. 

   Era ancora fresco di stampa il giornale che pubblicava la sua intervista che Christine Lagarde, Presidente della Banca centrale europea, gelava i polsi agli esperti dell’establishment italico con una “gaffe” buttata lì per sondare il terreno dicendo: ma che avete capito? «Non siamo qui a sanare lo spread»?

   Povero Veltroni, povero establishment italico. In poche ore viene bruciata sul nascere una tremenda illusione e le borse che danno il segnale d’allarme di una crisi ben più grave delle più ottimistiche previsioni.

   Ma ecco che dall’Inghilterra, il primo paese imperialista al mondo, irrompe sulla scena Boris Johnson che, sostenuto da una componente fondamentale del mondo scientifico, dice: «il governo non prenderà nessuna decisione, il coronavirus farà il suo corso. Non ci saranno chiusure, né dichiarazioni di stato di emergenza: a Londra come nel resto del Paese tutto continuerà come sempre».  

   È un irresponsabile Johnson e il mondo scientifico che gli sta dietro o c’è un calcolo cinico e crudele che parte dalle necessità dell’accumulazione capitalistica? Questo è il punto dirimente.  Proviamo in questa sede a fare un ragionamento semplice, tale da farlo capire anche ai non addetti ai lavori e cioè: questo coronavirus, ancora sconosciuto alla scienza perché “nuovo” si è dimostrato avere una potenzialità Ro (Errezero), cioè partendo dall’infettato zero ha una capacità di trasmissione di 2-3. Cioè ogni ammalato è in grado di far ammalare altre 2-3 persone, e ognuna di queste altre 2,3 e così in modo periodico, ma fino a un certo punto. Di conseguenza su una popolazione, poniamo, di 100 milioni di abitanti avremo una percentuale di circa 60 milioni di ammalati con diversi livelli di gravità. Non moriranno tutti, ma una percentuale minima e certamente fra quelli più cagionevoli di salute e con carenza di difese immunitarie, mentre tutti gli altri avranno sviluppato gli anticorpi e il virus nel frattempo avrà perduto la sua virulenza. Intanto il mondo scientifico e le case farmaceutiche avranno preparato il vaccino, che verrà somministrato in massa e il mondo continuerà a vivere come prima e meglio di prima. Si tratta di pagare un costo obbligato alla natura e alla necessitata selezione della specie. Se, viceversa, si bloccano le attività, si blocca l’accumulazione di capitali necessari per la ricerca scientifica e i costi necessari per il vaccino, aggiungendo in questo modo al danno la beffa del rallentamento dell’accumulazione di capitali in una fase già di per sé drammaticamente in crisi.

   È qui esplicitato in modo chiaro come non mai il carattere e l’essenza dell’homo capitalisticus, che non si pone il problema del come è sorto questo nuovo virus, ma lo utilizza all’interno dello stesso modo di produzione per l’accumulazione. È una morale inumana? È una domanda mal posta perché il modo di produzione capitalistico ha una sua morale propria che risponde solo alle sue leggi, quelle dell’accumulazione.

    Domanda l’ingenuo cittadino: si, d’accordo, ma se è così, perché Trump che in un primo momento si era espresso come il premier inglese e successivamente ha dichiarato lo stato di emergenza negli Usa e si appresta a prendere misure simili a quelle dell’Italia e di altre nazioni europee? Tre le risposte: a) ci sono le elezioni a fine anno, b) perché la borghesia non sempre ha la potenza di intervenire secondo i propri calcoli; c) perché il popolo americano è misto più che in Inghilterra e questo presenta maggiori difficoltà. 

    Noi comuni mortali, che non sogniamo ad occhi aperti nella speranza di continuare a vivere in un modo lussuoso sulle spalle di milioni di poveri disgraziati, in un modo di produzione che sta distruggendo tutto quel che di meglio esiste in natura oltre l’uomo, noi che invece ci battiamo per un rapporto diverso della specie umana con i mezzi di produzione e le altre specie della natura, ci sforziamo di capire e di far capire – a chi vuole capire, sia ben chiaro – le ragioni che stanno producendo una serie di disastri, come per ultimo il coronavirus. 

   Alcuni nostri simili cinesi scrivono:

«Wuhan è conosciuta volgarmente come una delle "quattro fornaci” della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, che condivide con Chongqing, Nanchino e alternativamente Nanchang o Changsha, tutte città molto trafficate con una lunga storia, situate lungo o in prossimità della valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan è anche letteralmente ricoperta di fornaci: l’enorme agglomerato urbano costituisce una sorta di nucleo produttivo per l'acciaio, il cemento e altre industrie legate all'edilizia in Cina, […]. La città è sostanzialmente la capitale cinese della produzione per l’edilizia, il che significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica mondiale, durante gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dalla concentrazione dei fondi di investimento nella costruzione di infrastrutture e di immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla, con un’offerta eccessiva di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, in questo modo, ha avuto essa stessa una rapidissima espansione urbana».

   Domandiamo all’onesto cittadino, ignaro di quel che sta accadendo realmente nel mondo: c’è qualche cosa in comune tra lo scenario descritto da questi cinesi e alcune città e aree geografiche italiane dove si sta accanendo in modo particolare il coronavirus? Ecco come andrebbe correttamente posta la questione.  

   Ma è solo un fatto italo-cinese, così pensavano e magari si auguravano nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, quella potenza economica in decadenza che ha eletto un fenomeno da baraccone come presidente e si preparava a rieleggerlo e a cui invece la dura realtà mette davanti scenari catastrofici e che reagiscono in modo disordinato e approssimativo avvolgendo la corda al collo di un sistema in crisi che si avvia inesorabilmente a essere messo in discussione non da una rivoluzione – come testardamente auspicata dai comunisti – ma dalle sue stesse leggi di funzionamento.

   Questi comunisti cinesi, sempre nel tentativo di far capire la causa delle cose, questione fondamentale che forse viene ancor prima di pensare alla “cura”, come riportano fonti più che attendibili, scrivono:     

   «Le monocolture genetiche di animali domestici rimuovono qualsiasi forma di difesa immunitaria in grado di rallentare la trasmissione. Popolazioni più numerose e più dense favoriscono tassi di trasmissione più elevati. Queste condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L'alto rendimento, che è lo scopo di qualsiasi produzione industriale, procura un rinnovo continuo dell’approvvigionamento di soggetti vulnerabili, il carburante per l'evoluzione della virulenza». [Robert G Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, 2016. pp. 56-57. 

   Come si può ben vedere, nonostante la complessità del problema, si tratta di un linguaggio semplice, ma che può essere capito solo da chi è disposto a capire. E purtroppo la specie umana non è troppo fornita di questa predisposizione ed è costretta dagli eventi, che essa stessa ha contribuito a determinare, a essere travolta nella tragedia.

   Ci perdoni il lettore se profittiamo della sua pazienza citando ancora questi comunisti cinesi:

«E, naturalmente, ognuna di queste caratteristiche è una conseguenza della logica della concorrenza industriale» (ibid). Attenzione bene, perché siamo all’abc del funzionamento del modo di produzione capitalistico dove la volontà dell’uomo vale zero proprio perché egli è avvolto dalla spirale della concorrenza.

  «Le epidemie,» scrivono ancora questi cinesi, «sono in gran parte l’ombra dell’industrializzazione capitalistica, e allo stesso tempo ne fungono da precursore. […] Non è un caso, quindi, che il centro dei focolai di epidemie fossero i grandi caseifici di Londra, che rappresentarono l’ambiente ideale per l’intensificazione dei virus. […] La peste bovina fu portata dall’Europa in Africa orientale dagli italiani, che cercavano di raggiungere le altre potenze imperialiste colonizzando il Corno d’Africa attraverso una serie di campagne militari». Lega, leghismo, leghisti? Arroganti e poveri parvenu.  

   La storia è un giudice inappuntabile che puntualmente presenta il conto e lo sta presentando all’uomo capitalistico che si è cullato per oltre 500 anni in un movimento storico forsennato che preso dalla sua boria di grandezza sta arrivando drammaticamente a fine corsa.

   È sbagliato e superficiale pensare che le classi privilegiate dell’attuale modo di produzione, che comunemente identifichiamo come borghesi, abbiano la bacchetta magica per utilizzare anche questo fenomeno per far proseguire il capitalismo nel suo cammino. Il comportamento dei governi, in modo particolare di quelli occidentali, ne è una prova evidente, come si diceva prima a proposito di Trump. Essi hanno paura non della rivoluzione, come molti pensano, compresi i comunisti cinesi che abbiamo citato, ma di eventi che non possono controllare. La borghesia, se proprio vogliamo usare questo termine, effettivamente non sa cosa fare ed è allo sbando, è vittima anch’essa di un modo di produzione impersonale e le “sue” misure, per quello che ci è dato sapere dall’angolo visuale dell’Italia, dopo la Cina, sono improntate a limitare i danni, a che non si diffonda il virus, a cercare di rendere governabile la situazione nella speranza – questo si, come pensa Veltroni e l’establishment, o per l’altro versante Johnson – che… «passata la tempesta odo augelli far festa».  Si tratta di difficoltà reali, è inutile nasconderlo, e di speranze vane, ma di previsioni cupe, molto cupe da parte di chi osserva razionalmente le questioni. 

   Contrariamente a quello che pensa e spera Veltroni e tutto l’establishment mondiale, a nord, a sud, a est ed a ovest, la storia da oggi in avanti cambia, non per volontà dei comunisti, ma per le leggi del modo di produzione capitalistico cui l’uomo stupidamente si è affidato. La scritta «Andrà tutto bene!» che comincia a comparire dai balconi è come l’urlo di Munch, un urlo di paura, non ci vuole molto per capirlo. 

    Chi si pone come comunista materialista si deve munire di tanta, ma tanta pazienza, perché un modo di produzione in crisi produce sconquassi ai quali l’uomo non è abituato e per di più si trova di fronte un nemico non identificabile in un uomo, un governo, un potere costituito, ma un soggetto invisibile che piuttosto che affrontarlo a viso aperto si è costretti a chiudersi in casa per non essere colpiti. Altro che guerra, nei confronti della quale si scende in piazza, si individua la responsabilità nel proprio governo, lo si abbatte per arrivare alla pace e alla ricostruzione. Insomma, la storia cambia.

   Le attuali borghesie mondiali, se proprio vogliamo identificarle quali nemiche dei popoli oppressi e sfruttati perché difendono questo modo di produzione, rappresentano il punto di arrivo di un comportamento umano che ha legato i suoi destini al principio della concorrenza. È questa legge che bisogna sconfiggere. Ed è molto più complicato che abbattere l’aristocrazia e riprodurre l’oppressione in altre forme e altre modalità come successe con le rivoluzioni cosiddette borghesi.

   Nella storia ci sono momenti in cui bisogna urlare e momenti in cui bisogna lavorare a far capire la causa delle cose, come azione fondamentale propedeutica a una mobilitazione tendente a individuare il nemico impersonale che si cela nell’uomo capitalistico e che opportunisticamente si adagia.  Si tratta di far prevalere la ragione sul sentimento, di saper indirizzare i nostri sforzi non all’immediatezza del «che fare», magari con fantomatiche tendenze ideologiche prive di senso. Dobbiamo avere la consapevolezza di non sapere cosa vuol dire comunismo, ma di sapere quello che ormai la specie umana non deve più volere, ovvero la supremazia delle leggi della concorrenza che hanno dominato il mondo per oltre 500 anni. 

   Diciamo senza mezzi termini: non siamo certi che l’ondata di questo virus porterà l’intero sistema alla catastrofe, ma siamo certissimi che da oggi in avanti questo modo di produzione riprodurrà virus sempre più potenti contro le sempre più fragili difese immunitarie dell’uomo. In una fase dove le leggi dell’economia mostrano la corda. E dunque la catastrofe generale sarebbe solo rinviata nel breve tempo. Noi profeti di sventure? No, voi illusi e cretini! 

   Pertanto nel caos che da oggi sempre di più aumenterà con scenari a noi sconosciuti è necessario trovare la forza di denunciare le cause della crisi dell’attuale modo di produzione, e prepararsi a stare posto che ci compete. Solo in questo modo chi si richiama al comunismo avrà assolto a un compito storico di fondamentale importanza.

   Michele Castaldo, marzo 2020

 

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Da Marx a Marx
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Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

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