Pubblico su questo sito lo scritto di Fabio Vighi che fornisce alcuni elementi pertinenti alla comprensione del problema del momento.

Michele Castaldo

di Fabio Vighi*

Comprensibilmente in questi giorni si parla molto dei sintomi del Covid-19 (tosse secca, febbre alta, ecc.). Si  discute invece molto meno del virus come sintomo. Diciamo allora che per intervenire sui sintomi del virus occorre non solo avere conoscenze scientifiche mirate, ma anche mettere in atto una riflessione seria sulle cause strutturali del suo scatenamento globale e, con queste, delle possibilità di cambiamento che l’emergenza, almeno teoricamente, ci dischiude. Se l’informazione mainstream, interessata innanzitutto a produrre panico, si concentra sul tema del contenimento dell’epidemia e delle sue conseguenze psicologiche, sociali e economiche (evidentemente non si parla d’altro che di gestione del fronte emergenziale), riflettere sulle cause può portare a una serie di considerazioni tutt’altro che secondarie.

L’ipotesi più accreditata è che, per quanto non si possa dire con precisione dove e in quali circostanze, la gestazione del Covid-19 sia avvenuta a margine di processi produttivi invasivi di tipo agro-industriale. Come sottolineato dal biologo evoluzionista Rob Wallace,1 i luoghi d’origine dei coronavirus (Mers e Sars) e di patogeni simili come l’Ebola, sono quelli di un’industria agro-economica sempre più aggressiva, che devasta interi ecosistemi mettendo in esplosiva relazione tra loro animali privati del loro habitat, allevamenti intensivi di bestiame, e periferie urbane a alta densità abitativa e scadenti condizioni igienico-sanitarie. In termini tecnici, si tratta di malattie zoonotiche, ovvero trasmesse, direttamente o indirettamente, dagli animali all’essere umano. Non per nulla molti di questi virus portano il nome di animali, per esempio l’aviaria, la suina o i cosiddetti arbovirus (trasmessi da artropodi, generalmente zecche o zanzare, tra cui lo Zika-virus).

In tutti questi casi siamo di fronte alla ripetizione dello stesso pattern: il “salto” del ceppo virale infettivo dall’animale all’umano all’interno di un contesto ecologico sconvolto dall’espansione di un altro virus, quello dell’esasperato produttivismo economico.

Perché questo è il punto. La logica ferocemente opportunistica delle multinazionali, particolarmente nell’ambito dell’agribusiness, si spinge da tempo alla conquista degli ultimi territori “vergini” della terra, soprattutto attraverso opere di deforestazione che costringono varie specie animali a interagire con ceppi virali in precedenza isolati. Questi ceppi virali vengono poi trasmessi all’essere umano non solo direttamente (come nel caso dei famigerati mercati di animali selvaggi) ma anche attraverso la mediazione di altri animali (per esempio negli allevamenti intensivi a monocoltura transgenica, dove l’indebolimento del sistema immunitario animale crea condizioni ideali per la proliferazione del virus). La devastazione ecologica facilita dunque l’interazione tra agenti patogeni precedentemente tenuti a distanza da ecosistemi a biodiversità complessa, e le comunità umane che interagiscono ai margini di ecosistemi deperiti. Gli elementi patogeni fuoriescono da territori remoti, intaccano periferie urbane e prendono a viaggiare velocemente sui binari della globalizzazione.

Come scrisse Wallace nel 2016, “Uno di questi virus presto ucciderà centinaia di milioni di esseri umani. Non è questione di se, […] ma di quando.”2 Prendiamo il caso dell’Ebola, diffusasi recentemente sia nell’Africa Occidentale (2013-16) che nella Repubblica Democratica del Congo (dal 2018), ma già registrata nel 1976 in Sudan oltre che nell’Africa centrale. L’eziologia di questo contagio presenta caratteristiche molto simili a quelle sopra descritte: a seguito di deforestazioni selvagge finanziate da capitali stranieri (per esempio la ‘Farm Land of Guinea Limited’, società britannica con base in Nevada) s’innesca una trasmissione virale che parte da portatori sani (i pipistrelli), attraversa altre specie animali che vengono decimate, e finisce per infettare vaste comunità urbane e suburbane. Le migliaia di morti da Ebola, uniti ai tremendi effetti collaterali del contagio, sono rimasti perlopiù circoscritti al continente africano, e anche per questo destano meno scalpore di quanto ne stia destando il Covid-19.

Dobbiamo dunque riflettere sulle cause profonde di questo virus improvvisamente assurto allo status di celebrity globale. La frequenza di fenomeni epidemiologici subdoli (capaci di mutazioni repentine) e altamente infettivi nasce dalla virulenza produttivistica che anima la sempre più agguerrita competizione agro-industriale. Lanciando uno sguardo sulla storia del capitalismo, si può osservare come questa precisa tipologia di pandemie zoonotiche non sia una novità. Dalle tre pandemie che sconvolsero l’Inghilterra della prima rivoluzione industriale a seguito di importazione di bestiame dall’Europa, alla peste bovina che falcidiò l’Africa alla fine del XIX secolo, alla più famosa di tutte, la Spagnola, influenza letale che tra il 1918 e il 1920 eliminò un numero di persone stimato tra i 50 e i 100 milioni, e che con ogni probabilità partì da un allevamento di suini o pollame del Kansas. Il Covid-19, peraltro, è l’ultima di una serie di infezioni virali che hanno segnato il percorso di sviluppo della globalizzazione negli ultimi 20 anni.

Qui però s’intende con ‘globalizzazione’ non solo la circolazione di merci, persone e capitali, ma soprattutto, nel suo significato più profondo e fondamentale, l’estensione su tutto il globo (o quasi) del modo di produzione del capitalismo, dove il valore (economico) non cresce sugli alberi prima di essere scambiato, ma viene creato dal lavoro vivo. Discutere ora di modo di produzione potrebbe sembrare fuori luogo. Invece credo sia assolutamente necessario, perché questo concetto ci permette di cogliere l’essenza della condizione moderna (che ora diremmo post- o iper-moderna, e chi più ne ha più ne metta). Per quanto mi riguarda, al primo posto della hit parade delle cose da salvare in Marx c’è la sua critica del valore in quanto prodotto dal rapporto sociale tra il capitale e il lavoro, la narrazione che ha definito la modernità fino ai giorni nostri. Il modo di produzione compulsivo dei moderni si basa esattamente su questo rapporto, questo modello di organizzazione sociale; esso partorisce un’entità enigmatica e intangibile, il plusvalore, che a sua volta si concretizza nel profitto, instaurando così la società del lavoro e del consumo, fissandola a vero e proprio ‘stile di vita’. Quando ci riferiamo al ‘nostro stile di vita minacciato dal virus’ parliamo sempre, magari senza rendercene conto, della sostanza sempre più invisibile di questa forma di vita, che scaturisce dal rapporto dialettico (profondamente amoroso, proprio perché “litigarello”) tra capitale e lavoro. Tale rapporto, prima di essere di natura economica, è una relazione sociale, che come tale non solo determina valore (ricchezza e povertà) ma simultaneamente si fa garante della riproduzione delle nostre società, e dunque della nostra benedetta cultura, ovvero di tutti quei valori che ancora (pare) ci accomunano e ci tengono insieme.

Giunti a questo punto, la domanda (retorica) sorge spontanea: cos’è il virus che attualmente minaccia il nostro stile di vita, se non l’ultimo sintomo, in termini cronologici, della crisi epocale di un rapporto riproduttivo in fase terminale e prossimo all’implosione? Il virus che oggi paralizza intere società considerate ricche, costringendole a uno stato di emergenza ormai permanente e al ripiegamento sulla mera sopravvivenza (nutrirsi, curarsi, dormire, stare in casa…), ci sta comunicando un messaggio inquietante ma piuttosto chiaro, se solo vogliamo intenderlo: questo scenario apocalittico non è solo il nostro presente, ma si delinea come il futuro di un mondo consegnato perversamente a un meccanismo riproduttivo che, per quanto ingegnoso, da qualche decennio sta esaurendo la sua capacità propulsiva, il suo carburante socio-ontologico. Non dobbiamo incappare nell’errore di separare il Covid-19 dalla relazione sociale da cui è nato e di cui si nutre. Se lo facciamo, non ci sarà alternativa alla catastrofe, ovvero al darwinismo sociale, lotta per la sopravvivenza tra coloro che saranno accomunati dall’essere sacrificabili (come ci insegna la figura dell’homo sacer di Agamben), rispetto ai sempre meno numerosi detentori di capitale (e dunque anche di potere politico e militare). D’altronde, non è forse già in atto questa logica intrinsecamente eugenetica (quindi nazista) che prevede il sacrificio di quei cittadini considerati un peso economico per la società e il suo negletto sistema sanitario? Le recenti parole del premier britannico Boris Johnson sull’inevitabile scomparsa di un alto numero di anziani a fronte dell’emergenza del coronavirus, che “deve fare il suo corso”, ci proiettano proprio in questa atroce dimensione di selezione naturale giustificata e persino pianificata dallo stato. È dunque indispensabile mettere il Covid-19 in stretto rapporto genealogico con una serie di eventi che da qualche tempo funzionano da sintomi a cui dovremmo prestare attenzione: dalla crisi ecologica, tanto impellente nelle sue emergenze umanitarie quanto pervicacemente denegata dalla politica globale; alla crisi di valorizzazione del capitalismo contemporaneo, il cui più recente epifenomeno è stata la grande recessione innescata dallo scoppio della bolla immobiliare nel 2007-08, e parzialmente superata solo grazie all’ingente iniezione di risorse pubbliche che ora però non ci sono più.

Se l’emergenza ecologica, insieme a quella microbiologica, rappresenta il limite esterno del nostro modo di produzione, la crisi di valorizzazione – che ha origine nei processi di automazione tecnologica della terza rivoluzione industriale (microelettronica), e che consegna l’economia nelle mani per definizione bucate della finanza – ne rappresenta il limite interno. Si tratta del medesimo limite assoluto declinato in diverse forme di emergenza da gestire politicamente attraverso gli strumenti dell’ideologia del ‘pensiero unico capitalista’ – che, com’è noto, produce nemici esterni su scala industriale per impedirci di vedere il nemico che lo/ci abita. Non è un caso che l’incidenza degli allarmi microbiologici stia crescendo esponenzialmente nel contesto di una stagnazione economica ormai epocale che prelude all’implosione del nostro modo di produzione. La quarta rivoluzione industriale alle porte – quella dell’intelligenza artificiale – non potrà che acuire la crisi sistemica di un rapporto produttivo ormai ridotto all’osso della propria contraddizione: la produzione di ricchezza attraverso quella merce sempre più rara che risponde al nome di lavoro salariato (il capitale variabile di cui scriveva Marx). Più il lavoro socialmente necessario viene eliminato, senza possibilità di essere riassorbito, più l’intera società capitalista si auto-condanna non solo alla quarantena, ma lentamente all’estinzione, o più probabilmente (nell’immediato) alla barbarie.

In queste condizioni, è normale che ci si preoccupi dello stato di salute dei mercati finanziari, ormai quasi del tutto “emancipati” dall’economia reale. In ogni caso, mi pare evidente che si stia raggiungendo un termine assoluto, oltre al quale non ci sono miracoli economici ad attenderci (green new deal o altre pie illusioni) ma un futuro fatto di scenari sempre più apocalittici. Tutto ciò è riassumibile con una delle massime più attuali del pensiero di Jacques Lacan: “il Grande Altro non esiste”. Declinata per il nostro uso quotidiano all’epoca della globalizzazione del coronavirus, questa massima significa: il capitalismo (ovvero la sua dinamica produttiva cieca, anonima e brutalmente compulsiva) sta esaurendo le carte da giocare a fronte delle crisi – o dei virus – che ingenera. Hegel, nella Prefazione alla Filosofia del diritto, scriveva che il compito della filosofia è quello di rivelare “una forma di vita invecchiata”, che ha ormai esaurito le sue possibilità storiche.3 Mai come ora dovremmo dare priorità a questa missione filosofica. Ci manca il terreno sotto i piedi, la presupposizione del nostro agire viene meno, vacilla la mediazione che da secoli ci socializza. Detto altrimenti, siamo al tramonto, e la nottola di Minerva deve prepararsi a spiccare in volo. Se proprio ce ne dobbiamo stare chiusi in casa, costretti a questa specie di bizzarri arresti domiciliari, cogliamo almeno l’occasione per riflettere.