con una nota analitica sull’India di Alessio Galluppi di “Noi non abbiamo patria”.

    Le recenti mobilitazioni dei contadini contro le misure il governo Modi in India ci obbligano a riprendere una seria riflessione in merito alla questione agraria nel modo di produzione capitalistico e al ruolo del mondo contadino. E lo dobbiamo fare, come correnti che si richiamano agli ideali del socialismo e del comunismo, sgombrando il campo dagli ideologismi che ci trasciniamo dietro da circa due secoli. Questo vuol dire abbandonare ogni ipotesi positivista, permanendo l’attuale modo di produzione che rappresenta un movimento storico dei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione. 

   Diciamo in premessa che le esperienze che si sono fino ad oggi sviluppate, contrassegnate dall’impronta rivoluzionaria in nome del socialismo e del comunismo, erano incentrate sulla proprietà della terra e del suo trasferimento dalle classi nobili alle classi plebee, che hanno caratterizzato il passaggio della produzione agricola artigianale a quella industriale. Questo passaggio, sia pure fondamentale, si è poi dimostrato solo come propedeutico alla vera questione che ha l’umanità di fronte a sé, cioè il rapporto con i mezzi di produzione e di questo con il resto della natura.

    Facendo un passo indietro di poco più di 200 anni, ovvero all’indomani della rivoluzione del 1789, notiamo che il problema che si pone in India in questi anni, si era già posto in Francia, ovvero l’intervento politico del governo nei confronti delle leggi dell’economia che correvano più del tempo orario che l’uomo ha cercato di fissare per organizzare la sua vita rispetto ai tempi della natura. Parliamo dell’introduzione della legge sul maximum, o anche in Italia nell’immediato dopoguerra il cosiddetto calmiere o paniere, cioè una serie di tentativi per tenere in equilibrio lo sviluppo economico senza determinare eccessive distanze fra le classi sociali.

   Il moderno movimento storico ci ha messo sotto gli occhi finora alcuni esempi sul rapporto degli uomini con la terra e l’agricoltura, che possiamo così sinteticamente schematizzare:

a.               Feudo e schiavitù della gleba, ovvero classi aristocratiche e classi bracciantili come proprietà complementare della terra in possesso della nobiltà, con l’obbligo per i braccianti di non potersi allontanare dal feudo pena l’arresto, il rientro nel feudo e il castigo fisico di vario genere. 

b.               Proprietà della terra di tipo borghese, e l’uso schiavistico del bracciantato agricolo.

c.               Proprietà della terra di tipo borghese e l’uso salariato del bracciantato agricolo.

d.               Proprietà della terra e varie forme di affittanza a contadini poveri e ex braccianti

Tali processi si sono incrociati con la rivoluzione industriale e con lo sviluppo capitalistico dei mezzi di produzione che hanno profondamente modificato ogni tipo di rapporto. Per comodità citiamo due esempi, uno negli Usa, con la cosiddetta abolizione della schiavitù, del 31 gennaio 1865; l’altro nella Russia presovietica del 1861 che risultano esplicativi di un percorso obbligato, cioè la liberalizzazione di masse di servi bracciantili per utilizzarli nell’industria. Un passaggio che non fu imposto dalla bontà degli uomini negli Usa, ma da precise esigenze dello sviluppo industriale. Altrettanto dicasi per la cosiddetta Riforma della servitù della gleba del 1861 in Russia dove ingenti investimenti delle potenze europee, come Inghilterra e Francia, richiedevano una mano d’opera liberata dalla servitù della gleba da impiegare a costi bassissimi nelle industrie estrattive, siderurgiche e metallurgiche. 

   Si trattò di un passaggio obbligato che modificò radicalmente il rapporto di una parte degli uomini che passarono da una schiavitù all’altra, tanto negli Usa quanto nella Russia. Con la differenza che in alcuni Stati del sud degli Usa si protrasse ancora a lungo lo schiavismo razzista attraverso l’uso dei neri nelle piantagioni. Negli Stati del sud c'era un numero non insignificante di coloni e proprietari di possedimenti non superiori ai 40 acri e non possessori di alcuno schiavo che dobbiamo distinguere dagli schiavisti proprietari fondiari e capitalistici (come diceva Marx il proprietario della piantagione era sia proprietario fondiario che capitalista allo stesso tempo). 

    Durante la guerra civile questa quantità di coloni bianchi e non possessori di schiavi fu la truppa mandata in trincea, con la coscrizione obbligatoria anche per i ragazzi dai 14 anni in su. Mentre le leggi degli Stati confederati, emanate ad hoc, esoneravano dalla chiamata obbligatoria alle armi componenti delle famiglie dei proprietari terrieri in base al numero di schiavi posseduti: se avevi 20 schiavi, potevi esonerare un figlio, se ne avevi 40 due maschi della famiglia venivano esonerati e via dicendo. In sostanza se avevi gli schiavi era giusto non andare in trincea perché dovevi controllare la preziosa proprietà. 

Questo fu uno degli elementi che determinò un numero crescente di diserzioni delle truppe al fronte ed il fenomeno delle comunità maroons (dal francese che significa ritorno alla vita selvaggia) nelle zone paludose del Mississippi, Louisiana, ecc. composte da schiavi fuggitivi e disertori sudisti. A fine guerra gli schiavi liberati non ottennero i 40 acri di terra promessa, ma subirono l'esecuzione di alcune nuove leggi dove erano obbligati ancora a lavorare nelle piantagioni di prima ma con un misero salario. Mentre molti ex coscritti tornarono a lavorare i loro campi che però non erano gli stessi di prima, ma su zone meno fertili e spesso di dimensione inferiore. Insomma c'è una parte della storia della guerra civile americana e del dopo guerra parzialmente occultata.  

   In Russia una quota importante di braccianti liberati dalla servitù fu assorbita dalle industrie, per lo più a capitali occidentali. 

   La riforma agraria, che va sotto il titolo di Abolizione della servitù della gleba del 1861 in Russia, la prendiamo in esame perché è ricca di risvolti storici, per modalità diverse da quella degli Usa, e che ci rimandano a quanto sta accadendo in India in questo periodo. Si trattò di una riforma che liberava i braccianti dalla proprietà della nobiltà, dunque li rendeva liberi di vagare per campagne e città alla ricerca di un lavoro e dunque alla mercé degli appetiti industriali, per un verso, mentre, per l’altro verso, offriva la facoltà a piccoli contadini o anche braccianti di “comprare” a prezzi esorbitanti pezzi di terra non fertilissimi, in posti disagiati ed a condizioni economiche da strozzare le aspettative capitalistiche di chi acquistava. E chi non riusciva a pagare in moneta doveva corrispondere o in natura, con prodotti della terra, oppure con lavori presso i terreni del padrone del feudo, che rimase fino al 1917.

   Diversamente dalla Russia, invischiata nell’oblomovismo della nobiltà, negli Usa lo sviluppo industriale procedeva in maniera impetuosa al punto che si imponeva la necessità di uno Stato federale tale da disporre la raccolta di fondi e di investimenti in infrastrutture. Una necessità che imponeva perciò anche una nuova legislazione per quanto riguardava la schiavitù razzista, che trovava l’opposizione dei coloni in molti Stati del sud, che non intendevano affatto rinunciare all’uso della schiavitù nelle piantagioni di cotone. 

   Ma proprio quella riforma dell’abolizione della servitù della gleba del 1861 in Russia, doveva aprire la porta alla complessità dei rapporti tra l’uomo, i mezzi di produzione e la terra; perché in questione non c’era soltanto la proprietà della terra, come pensavano in tanti, ma l’insieme dei nuovi rapporti sociali che la rivoluzione industriale andava producendo, perché mentre la terra esisteva in natura e richiedeva di essere utilizzata e sfruttata, lo sviluppo industriale produceva quel complesso di rapporti che costituiscono il Capitale, cioè l’insieme di più fattori impersonali. Insomma un lotto di terra può passare da un nobile a un mugico che prima la lavorava per il pomesciko mentre poi la lavora per conto proprio, la fabbrica invece si presenta non come risultato spontaneo della natura, ma come elaborato dell’uomo in termini spaziali e temporali, ovvero come processo.

   Pertanto sul piano del movimento storico dei rapporti degli uomini con i mezzi di produzione, la terra subisce il martirio del nuovo corso dell’industrializzazione al quale non si può in alcun modo sottrarre. Dunque quell’insieme di rapporti che il modo di produzione capitalistico va sviluppando si presenta come il vero soggetto della storia fino a illudere l’uomo sulla possibilità di dominare ogni altro aspetto della natura. Una illusione che nel corso di pochi secoli l’uomo dovrà bruciare. Basta guardare all’oggi e alle conseguenze della pandemia da Covid-19. 

   Diversamente e ancor più che per il passato si presenta oggi il rapporto con i contadini nel modo di produzione capitalistico, come i fatti dell’India di questi giorni stanno a dimostrare.

 

La terra è di Dio

    A differenza degli Usa, dove gli schiavi africani vennero importati, e degli europei che furono attratti dall’età dell’oro, in Russia i contadini servi della gleba erano stanziali da secoli immemori e avevano maturato la convinzione che la terra era di Dio, ovvero, tradotto materialisticamente, apparteneva alla natura e pertanto non poteva e perciò non doveva avere una proprietà nelle persone. Dunque il concetto «la terra è di Dio» diveniva una parola d’ordine per liberarsi dalla schiavitù della terra ed essere compartecipe del suo utilizzo per alimentare le energie dell’uomo e la sua sopravvivenza come specie. Ma se la nobiltà rivendicava il proprio diritto di proprietà, a questo punto i mugichi, visto che la terra la lavoravano, a giusta ragione la rivendicavano come un diritto di proprietà. Insomma se è di Dio è di tutti, se una parte se n’è ingiustamente impossessata è giusto ripartirla. Per farla breve, i mugichi applicavano il buon senso. Ma poi si sa che la storia dell’uomo di tutto è fatta meno che di buon senso, tant’è che Hobbes coerentemente definì l’uomo come lupo nei confronti un altro uomo: homo homini lupus.

   Allo sviluppo secolare della lotta per la proprietà della terra si sovrapposero, come su accennato, i nuovi rapporti che lo sviluppo industriale andava producendo;  e dunque il nuovo titolare della terra avrebbe dovuto fare i conti non più e non soltanto col precedente proprietario e con le strutture statuali e finanziarie per poter liberamente produrre e commercializzare i prodotti della terra e usare il bestiame, ma  doveva entrare in un ingarbugliatissimo meccanismo dove l’uomo contadino man mano perde ogni identità come tale per divenire sempre di più una rotella di quell’immenso meccanismo che da rionale diviene comunale, poi provinciale, poi regionale, poi nazionale ed infine addirittura mondiale. 

    In questo accidentato percorso ogni resistenza è resa vana dalle leggi dell’economia di mercato. A che punto di questo percorso si collocava la grande sollevazione dei contadini poveri nel novembre del 1917 in Russia e verso quali sviluppi poteva essere proiettata? È alla seguente domanda che cerchiamo di rispondere: dove può portare la lotta dei contadini in India contro la riforma del governo Modi?

   Ripetiamo: in queste note non ci occupiamo degli Usa o dell’Europa e neppure di come venne ripartita la terra prima e dopo il 1949 in Cina, o nei paesi dell’America latina, il che ci porterebbe lontani dalla comprensione di un passaggio storico obbligato, allora come oggi, ma che si sviluppa in due fasi completamente diverse del moto generale del modo di produzione capitalistico: uno al principio della rivoluzione industriale e, quello in India di questo periodo, in una fase di crisi profonda del movimento storico dell’accumulazione capitalistica. Pertanto non potremo avere gli stessi risvolti, ma più complessi e più semplificati, al tempo stesso, e cerchiamo di spiegare perché. 

   Ci corre l’obbligo di una precisazione: la storiografica sui fatti della Russia, sia di chi sostenne quella straordinaria rivoluzione che di chi l’avversò, sono viziate – giocoforza – dalla difesa o dalla condanna a priori, quando non dall’ideologismo. Sicché entrambe le posizioni risultano poco efficaci per comprendere in modo deterministico il corso storico. Mentre il nostro sforzo consiste nell’esaminare i crudi fatti senza l’influenza dell’opinione preventiva, che pure abbiamo. 

   I mesi tra la fine dell’estate e i primi dell’autunno che precedettero la presa del Palazzo d’inverno e la costituzione del governo rivoluzionario dei bolscevichi, furono caratterizzati da imponenti mobilitazioni dei contadini poveri che scappavano dal fronte di guerra per occupare le terre. Si trattò di un movimento rabbioso perché il governo Kerensky prendeva tempo e non si decideva a indire l’Assemblea Costituente che avrebbe dovuto procedere alle requisizioni e alle assegnazioni delle terre. 

 

I contadini e i bolscevichi   

   Nella notte della presa del Palazzo d’inverno, il primo decreto del governo diretto dai bolscevichi fu quello di requisire la terra della nobiltà e del clero. Sicché tanti intellettuali, imbevuti di ideologismo, del socialismo e del comunismo, farebbero bene a leggere con l’attenzione dovuta la storia, per evitare di scrivere continuamente scemenze. In attesa che venisse assegnata la terra pochi giorni dopo l’insurrezione per tutta la Russia furono svolte le elezioni politiche in cui i bolscevichi vinsero solo nelle due capitali, grazie a una imponente presenza operaia, mentre furono clamorosamente sconfitti per il restante della Russia, dove predominava la presenza dei contadini. Come fu possibile una cosa del genere? Come mai i contadini votarono contro chi li aveva sostenuti senza esitazione nelle occupazioni delle terre e nella rivendicazione della ripartizione, e per tutta risposta votarono per i liberali e i socialisti rivoluzionari che stavano nel governo Kerensky, che li reprimeva durante le occupazione delle terre? A questa domanda si può rispondere in un unico modo: mentre liberali e socialisti rivoluzionari da sempre paventavano la riforma agraria e si battevano perché la terra fosse distribuita ai contadini come in Occidente, i bolscevichi ci erano arrivati solo nell’ultimo periodo e solo a seguito delle lotte che si erano svolte dopo il 1905.  

   La conclusione del nostro ragionamento è che i contadini, piccoli, medi e grandi, puntavano a costituire in proprio l’azienda agricola e sviluppare l’accumulazione capitalistica; mentre i bolscevichi, con Lenin come guida politica, pensavano alla costituzione di organizzazioni comunitarie di semina, raccolto, lavorazione e distribuzione al consumo. Una palese contraddizione che non poteva essere superata dalla volontà politica e ideologica dei bolscevichi. 

   Rosa Luxemburg, che aveva accuratamente studiato Il capitale di Marx, e aveva ben assimilato il senso storico della forza delle leggi dell’accumulazione capitalistica, pur sostenendo la Rivoluzione mise in guardia Lenin e i bolscevichi dicendo loro: «attenti cari compagni, questi saranno i vostri carnefici». Giust’appunto: sostegno alla causa della rivoluzione contro la nobiltà, ma attenzione a sposare fino in fondo la causa dei contadini. 

   È questa una delle questioni storiche che il movimento ideale del comunismo si è trovato ad affrontare venendo però travolto dalla forza delle leggi dell’economia di mercato che recavano il segno l’homo homini lupus anche in Russia, come nel resto del mondo. 

   Per ultima una questione non secondaria rispetto alla quale va fatta chiarezza: i bolscevichi, e Lenin in modo particolare, furono violentemente attaccati dal liberalismo borghese di tutto l’Occidente perché non solo requisirono la terra alla nobiltà e al clero, ma la assegnarono per bocche ai contadini, secondo i componenti del nucleo familiare, mentre in Francia la borghesia nascente se ne impossessò con mille artifizi legislativi. Nel resto d’Europa non andò diversamente. Ecco il vero motivo degli attacchi che per decenni Lenin e i bolscevichi  subirono dagli storici al servizio del capitalismo mondiale. 

 

Veniamo all’India d’oggi 

   Questo immenso paese, partendo dalla liberazione dalla dominazione coloniale dell’Inghilterra, ha dovuto fare di necessità virtù per rincorrere un’accumulazione primitiva autoctona e inserirsi nel processo di accumulazione dell’insieme del modo di produzione capitalistico, ma è arrivato al dunque, cioè a impattare con quelle leggi che lo obbligano a misure drastiche nei confronti dei contadini e avviare una radicale ristrutturazione dell’agricoltura. 

   Nella scheda analitica che segue, redatta da Alessio Galluppi di Noi non abbiamo patria, cerchiamo di mettere a fuoco quali drammatiche conseguenze si preparano per milioni di contadini e operai indiani e quali riflessi si produrranno sul mercato mondiale dell’agroalimentare sia nei confronti del mercato cinese, che comincia ad accusare qualche battuta d’arresto, che del mercato nordamericano dove si addensano nubi nere all’orizzonte.

 

scheda india 

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Da Marx a Marx
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Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

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