Un punto di vista

Da circa venti anni si fa un gran parlare dell’esistenza di due diversi ‘modelli di capitalismo’, uno anglosassone, l’altro renano-nipponico. Il primo si sarebbe oramai inerpicato in maniera definitiva verso una selvaggia finanziarizzione; il secondo, viceversa, resisterebbe e si proporrebbe come modello in competizione su valori eticamente diversi di natura produttivo-keynesiano. Nel primo caso si sarebbe verificata una sorta di traumatica deviazione dall’originale. <<Da una parte il capitalismo anglosassone fondato sul primato dell’azionariato, il profitto finanziario a breve termine e, più in generale, il successo finanziario individuale. Dall’altra parte il capitalismo renano, le cui caratteristiche principali sono l’interesse per il lungo periodo e il primato dell’azienda concepita come una comunità che associa il capitale al lavoro.>> 1. Della china che avrebbe imboccato il modello anglosassone sarebbero responsabili da un lato di economisti facenti capo a Friedman e la cosiddetta Scuola di Chicago, e

dall’altro lato sul piano politico Reagan, Bush –padre e figlio- , la Tatcher ed avrebbero in Berlusconi , Merkel, Sarkozy e similari i loro naturali emuli in Europa. Ovvero due gruppi, uno di studiosi economici ed un altro di sfrontati politici, avrebbero deviato l’economia su binari diversi da quello originale. Questi due gruppi avrebbero trasformato un modello economico sano, in un capitalismo senza scrupoli, capace di fare terra bruciata intorno a sé e di mettere a rischio la tenuta di una necessaria coesione sociale. La logica conseguenza di questa impostazione sarebbe che per impedire che in Europa e in Giappone accada quanto accaduto in Inghilterra e negli Usa bisogna continuare e rafforzare il modello renano-nipponico-keinesyano perché questo sarebbe garanzia di equilibrio sociale e di prosperità futura. E giù con ammonimenti morali a governanti e circoli capitalistici : <<….la vera ricchezza di un’impresa non è nei suoi capitali o negli immobili che possiede, ma nella qualificazione e nelle capacità dei suoi dipendenti. >>. Non manca ovviamente qualche autorevole consigliere del FMI che addirittura suggerisce una << strategia di base: mantenere l’economia il più possibile vicina alla piena occupazione>> . C’è poi chi definisce il nuovo corso del capitalismo anglosassone – ma sostanzialmente Usa - come uno << Shock Economy >> , un vero e proprio disastro ovunque ha messo mano sia in terra propria che – innanzitutto – fuori di essa. Come è possibile, si domandano in tanti, che in soli 25 anni un mondo che si reggeva su un equilibrio così ben consolidato sia sfociato in una globalizzazione del mercato delle merci dove la speculazione finanziaria sembra prendere il sopravvento sull’accumulazione degli apparati produttivi generando una crisi dagli esiti catastrofici? Com’è possibile che la caduta del muro di Berlino e l’apertura dei mercati asiatici che avrebbero dovuto garantire una nuova e straordinaria età dell’oro, si stia rivelando per una fase di possibile implosione di tutto il sistema dell’accumulazione capitalistica?. Come sia possibile che con l’apertura di nuovi mercati anziché crescere l’occupazione aumenta la disoccupazione, diminuiscono i consumi in modo particolare in Occidente, si riducono i salari con il rischio di rivolte nel cuore del Sistema del Capitale? Insomma cosa sta realmente succedendo? Qual è il futuro che ci attende? Domande certamente complesse, ma bisogna porsi da un certo punto di vista per fornire le risposte adeguate. Innanzitutto va detto che il Sistema del Capitale rappresenta il compimento quale ultimo stadio di un lungo processo di accumulazione dovuto innanzitutto – ribadiamolo innanzitutto – al colonialismo europeo nei confronti degli altri continenti, le Americhe in primis, e fa bene Ruffolo a conteggiare cinquecento anni, cioè a partire da quel famoso 1492. Dunque si tratta di una semplice assurdità quella che vorrebbe il ‘modello capitalistico’ nascere con le caratteristiche principali quali il primato dell’azienda concepita come una comunità che associa il capitale al lavoro. Certamente è vera la tesi che in quanto stadio di sviluppo è risultato essere rivoluzionario, ma in quanto espressione di tutto un ciclo di accumulazione, di esperienze e di necessità che hanno trovato sbocco negli ultimi duecento anni come sostiene G. Ruffolo. Il retroterra però fu il colonialismo “colombiano” che lui omette Il senso rivoluzionario del modello capitalistico è consistito nel drenare le risorse da periferie – cioè altre aree, ritenute dagli europei ‘periferie’, e addirittura proprie - verso un centro, e trattandosi di europei, non poteva che essere l’Europa. Non staremo qui a discutere sul come sarebbero potute andare le cose se ….ecc. ecc. La storia non la si fa coi se. Prendiamo atto che questo stadio di accumulazione e di sviluppo si è verificato, che ha fornito straordinari impulsi sul piano delle scienze, delle tecniche, della medicina e quant’altro a disposizione delle future generazioni dell’umanità. Avremmo più di una obiezione da fare circa il carattere rivoluzionario da assegnare alla classe che ne è stata espressa, cioè la borghesia, e se proprio lo dovessimo fare, saremmo costretti a dire che si è trattato di una classe rapinatrice e che ha usato il bottino della sua rapina per seminare morte e distruzione, ma non è questo l’intento prioritario in oggetto, basta leggere lo straordinario contributo fornito dal compagno Silvio Serino poco prima della sua morte, L’uovo di Colombo e la gallina coloniale. Ci torneremo magari in altra sede.

Quando si parla di capitalismo si usano accezioni non sempre filologicamente corrette e cioè: modello capitalistico, mondo capitalistico, società capitalistica, dove però il sostantivo non è mai il dio Capitale, ma il modello, il mondo, la società, a seconda della convenienza del momento. Il capitalismo ne evince quale aggettivo. Stante cosi le cose, è del tutto evidente che se l’aggettivazione ne risulta esagerata in un senso o in un altro, basta correggere dirigendo dall’alto del soggetto – del sostantivo, cioè del ‘modello’, del ‘mondo’ , della ‘società’ - e tutto può ritornare in ordine come prima. Per fare un esempio su tutti, G. Ruffolo sostiene che il modello capitalistico attuale somiglia tanto ad una buona minestra dove però ci è finito una quantità di sale in più rispetto all’occorrente e dunque si tratterebbe di rimisurare gli ingredienti, sottrarre la quantità di sale superfluo e la minestra tornerebbe ad essere cucinata per ottimi palati. Due questioni si pongono: la prima, il capitalismo si esplicita in quanto Sistema del Capitale, ed ha delle coordinate obbligate di funzionamento in tutto il globo terrestre e anche oltre se dovesse raggiungere conquistandoli altri pianeti; la seconda – che è una subordinata – che proprio perché non si tratta di altro che di Sistema, al suo cospetto non possono esistere o coesistere altri sistemi. Per intenderci, un altro sistema solare esiste certamente, ma non nel nostro sistema solare. Dunque non si tratta di un modello sociale che ha gareggiato con altri e si è imposto agli altri per maggiore qualità, democrazia, capacità attrattiva, o per indole delle popolazioni che l’hanno dato origine, fascino ecc. ecc. , ma di un Modo/Motu di produzione che nella sua evoluzione si è imposto fino a rivelarsi come Sistema in ogni dove con le sue leggi obbligate.

La legge del valore, la ricerca del massimo profitto “individuale” a breve termine, l’inevitabilità della concorrenza; queste leggi, in un’epoca di decelerazione dell’accumulazione come quella che stiamo vivendo in questi anni, diventano fattori di una potenza devastante: la concorrenza è ormai tra capitali “individuali” enormi e sempre più accesa, la ricerca sempre più spasmodica del profitto conduce sempre più ad una accumulazione finanziaria che prescinde dall’ “etica” del modo di “produzione” del valore; ed ecco spiegata la “legge” della finanziarizzazione, del vortice dell’accumulazione della moneta che cresce su se stessa e non essendo essa espressione di valore reale, perché sotto non ha niente se non montagne di carta straccia, o ‘bolla’ come amano dire gli economisti, si è in presenza non di una crescita dell’accumulazione ma di un rallentamento dell’accumulazione stessa intesa come accumulazione di valore. Di chi le responsabilità? I maggiori analisti europei si scagliano contro la cosiddetta scuola di Chicago, che avrebbe consigliato ai capitalisti anglo-americani di dare una accelerazione liberista a tutto il corso del capitalismo mondiale, (un bel saggio di Naomi Klein ne descrive tutti gli interstizi del percorso. ). Questi analisti sono però fuori tema , non si pongono la domanda del perché solo ad un certo punto il Sistema del Capitale si impenna verso un processo di finanziarizzazione piuttosto che continuare ad accumulare valore lì dove aveva avuto il suo massimo splendore, cioè nella produzione industriale. E dunque il motu ne modifica il modo. Non è l’individuo che fa la storia, l’individuo obbedisce a leggi oggettive impersonali, e Friedman insieme a i suoi soci ha obbedito ad una legge precisa e specifica del Sistema del Capitale in un contesto determinato, cioè quella che in presenza di una accresciuta concorrenza – motu - era più conveniente economicamente investire in servizi – dove era inferiore la concorrenza - o nella finanza, piuttosto che in processi produttivi. Si tratta di settori sterili da un punto di vista della produzione di valore e maggiormente gravosi sull’accumulazione in una fase di caduta tendenziale del saggio di profitto. Un conto è una eccedenza di capitali dovuta ad una accelerazione dell’accumulazione e destinata al credito , Ruffolo fa l’esempio del 700 fra l’Inghilterra e l’Olanda, tutt’altra cosa quando le risorse economiche non possono essere più ben valorizzate dalla produzione e si destinano a produzioni sterili o alla speculazione finanziaria. Ecco perché non regge il parallelo di Ruffolo, perché un conto è finanziare il credito che a sua volta finanzia lo sviluppo dell’accumulazione di valore – come nel caso dell’Olanda con l’inghilterra – bel altra cosa è la Cina che comprando i buoni del tesoro americano non ne finanzia il credito bensì la pura speculazione in un contesto di generale crisi dell’economia. Una massa di moneta-valore può essere destinata al credito solo se questo poggia su basi solide di sviluppo e dunque di accumulazione. Questa fuga dalla produzione – per così dire - ha significato e significa privatizzazare, esternalizzare tutti i servizi dello stato, tagliare tutte le guarentigie per i lavoratori dipendenti, flessibilizzare la mano d’opera, insomma drenaggio di risorse dalla produzione per immetterle all’interno di un circuito “virtuale” o di produzioni sterili, che produce all’immediato profitto, ma non valore, con un conseguente calo dei consumi. Una fase storica che si caratterizza – a differenza da quella degli anni 30 negli Usa, per fare un esempio – non per una crisi di sovrapproduzione relativa, ma per una decelerazione del processo dell’accumulazione dovuta ad una tendenza sempre più accentuata del saggio di profitto ad abbassarsi, di cui i processi di speculazione finanziaria, il cosiddetto corso di finanziarizzazione di una parte dell’economia, ne rappresentano perciò l’effetto, non la causa. La bolla dei sub-prime – che comincia ad avere serie conseguenze in Europa e non solo - è l’effetto di questa decelerazione dell’accumulazione. Non inganni il luccichio sfavillante dello sviluppo asiatico, in primis quello cinese, che sta avvenendo a scapito di un depauperamento delle zone interne, basti pensare che la Cina importa soia dall’Argentina comprandola con i buoni del tesoro americano, perché proprio quello sviluppo è la dimostrazione del rallentamento dell’accumulazione capitalistica a scala mondiale, in quanto il valore prodotto dallo sviluppo cinese va a finanziare la speculazione e l’industria bellica senza possibilità di ritorni accresciuti. Ci vollero due straordinarie rivoluzioni in Russia ed in Cina oltre che una prima ed una ancor più devastante guerra interimperialistica mondiale per rilanciare l’accumulazione, ed eravamo nel pieno splendore dell’accumulazione stessa. In realtà, quello che sta crescendo veramente è il debito sia dei paesi più sviluppati – quelli occidentali per intenderci – che a loro volta tramite gli organismi monetari e politici internazionali come il FMI o la BM o la BCE ecc. cercano di scaricare sui paesi emergenti – sia quello degli stessi paesi emergenti che per potersi sviluppare devono essere indebitati oltre il dovuto. Dal momento che la moneta non figlia valore, come soleva dire la grande aquila Rosa e ancora meno il debito, il Sistema del Capitale giunto a questo stadio dell’accumulazione è destinato ad implodere per tre ordini di motivi: 1) perché le risorse materiali come le materie prime non sono infinite, la corsa del prezzo del petrolio verso prezzi proibitivi è il cappio intorno al collo proprio dell’occidente, e questo è un dato acquisito da tutti gli economisti di ogni ordine e grado; 2) perché le popolazioni un tempo colonizzate – detentrici di straordinarie risorse di materie prime - si sono da lunga pezza ridestate e pretendono a giusta ragione di vivere dignitosamente, e questo è un fattore di enorme indebolimento del saggio di profitto; 3) il proletariato – che il Sistema del Capitale ha prodotto e mondializzato – non può essere posto in concorrenza alla stessa stregua delle altre merci come sta avvenendo negli ultimi quindici anni in Occidente e compresso oltre ogni limite in Asia e altrove. La conclusione è che siamo in presenza di una più che realistica ipotesi di crollo di tutto il Sistema., così come ben se ne avvedono economisti alla Ruffolo il quale approccia tre scenari possibili: << la prima è la trasformazione dell’egemonia in aperto dominio, quello dell’impero americano; la seconda è quella della costituzione di un ordine mondiale capitalistico non egemonico, come quello degli ultimi cinquecento anni, ma multipolare; la terza è una prospettiva caotica che prefigura un’età dei torbidi.>> Eccoli accorrere al capezzale del Capitale, ecco i sognatori ad occhi aperti che ne invocano una inversione di tendenza ed un ritorno ad uno status quo ante, per evitare i torbidi, il caos, cioè la rivoluzione. E – udite! Udite! - ad un ripristino capitalistico magari rimodellato sul keynesismo del mercato, il che vorrebbe dire consigliare ad un moribondo di ritornare a gareggiare per i cento metri a scatto. Quello che gli economisti democratico-borghesi non sono in grado di capire, è che il cosiddetto keinesismo era frutto di un contesto storico determinato, in una fase di accumulazione vertiginosa come quella avvenuta negli Usa tra i primi dell’800 e la prima metà del novecento e il cosiddetto New Deal di roosweltiana memoria aveva questo straordinario retroterra economico, c’erano i forzieri strapieni. << La nostra preferenza per l’oro europeo, invece che per le merci forestiere, quale mezzo di pagamento dei debiti contratti a nostro favore, provocò un’inondazione d’oro e spianò la via al boom del 1929. Credito a basso tasso d’interesse venne fuori in abbondanza dalle ampie disponibilità auree e ciò rese possibile un’ultyerioore espansione industriale, crescendo i prezzi dei titoli e le possibilità di far denaro facilmente. >> scriveva Wallace nel 1935, alla vigilia del secondo conflitto interimperialistico. Oggi gli Usa sopravvivono grazie allo sviluppo cinese ed asiatico, con un proprio proletariato interno che è sempre di più walmartiano che fordiano, dove una grande industria come la General Motors è sull’orlo di un catastrofico fallimento. Certo, gli Usa si reggono con la forza militare piuttosto che con la forza di un poderoso sviluppo economico, con le aggressioni a popoli e nazioni per accaparrarsi le materie prime e attraverso esse divenire sempre di più gli usurai del pianeta, come la preparazione all’aggressione all’Iran sta a dimostrare; ma la sola produzione della forza militare non può sopperire né alla caduta tendenziale del saggio di profitto – anzi la aggrava ulteriormente - e meno ancora alla decelerazione dell’accumulazione. Dunque la prima ipotesi di Ruffolo non si pone, gli Usa arrivarono al secondo conflitto mondiale con un patto con il proprio proletariato di ampie guarentigie economiche e sociali grazie ai forzieri stracolmi, come sopra detto. Meno ancora si pone la seconda ipotesi, cioè di uno sviluppo armonico multipolare in un’epoca di accresciuta concorrenza, di caduta sempre maggiore del saggio di profitto e di decelerazione dell’accumulazione. Si pone una terza ipotesi, con qualche varianza oltre che dei torbidi ruffoliani, una ipotesi prevista dal terror red rex di Treviri. Veniamo a questa ipotesi ed al soggetto di riferimento.

Il proletariato: una classe rivoluzionaria di fatto.

Secondo i moderni analisti, nessun modello avrebbe retto al confronto con il capitalismo – sempre nella accezione confusa e contraddittoria di cui sopra – in modo particolare ….ovviamente – non lo avrebbe retto il Comunismo che avrebbe fallito al primo impatto con la storia, quando dovette passare dal piano ideale a quello pratico ed attuativo, finendo nelle secche di un dispotismo equiparabile per i suoi trascorsi nefasti al fascismo ed al nazismo. Per costoro, se in buona fede, una umana pietà, altrimenti un distaccato disprezzo. Il Comunismo in Ursss negli anni trenta con Stalin?, in Cina negli anni cinquanta? a Cuba?, in Vietnam?, in Cambogia? , o poveri miserabili. Il vero dramma per i borghesi e per la sua intellighenzia, è che ogni lotta di liberazione anticoloniale o antifeudale o semplicemente democratico borghese abbia dovuto fare ricorso agli ideali del Comunismo perché il trittico ‘ liberté, fraternité egalité ‘ era un’arma inservibile per gli oppressi già al suo sorgere e dunque non più sufficiente per le proprie battaglie. E proprio al sorgere del trittico il Comunismo seppe da subito porre i suoi intereressi storici, quelli cioè del proletariato. Ci sarà tempo e modo per tornare sulle rivoluzioni del 1871, del 1917, del 1949 e cosi via, rivoluzioni borghesi fatte dal proletariato, in cui vinse la borghesia e fu sconfitto il proletariato in quanto a prospettiva storica di fase. Utile idiota dunque? No, classi oppresse che per superare quello stadio di oppressione furono costrette a fare una rivoluzione di cui un’altra classe ne ha beneficiato. Altrimenti detto, classi subordinate che chiamate dalla storia a svolgere il proprio ruolo lo assolsero col tributo di sangue richiesto. Ma – memento homo - ‘ il Comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti ‘, e dunque il suo cammino storico ha compiuto solo la prima tappa, o il primo atto e cioè l’abolizione che ne ostava lo sviluppo alle pre-condizioni; siamo al secondo e conclusivo atto, all’abolizione del mercato, della concorrenza, cioè delle leggi che regolano il Sistema del Capitale. Si tratta di una nostra idea? No, basta leggere quello che scrivono tutti i borghesi di questo mondo, cioè della necessità di un mercato etico, di una equa distribuzione delle risorse e via sognando. O si distruggono le leggi che sorreggono il Sistema del Capitale e ne determinano il crollo, o crolla il Sistema del Capitale distruggendo le sue stesse leggi e probabilmente tutti noi. Tutte le varianti borghesi alle leggi del Sistema del Capitale sono solo sue invarianze. Non interessa sapere quanti anni occorreranno, ma che come Sistema abbia valicato il ponte, che ha imboccato cioè la discesa, e si sa, quando essa comincia diviene via via sempre più ripida..

La tesi comunista da Marx in poi è che ‘il proletariato si costituisce in classe e si dà in partito politico ’. Dunque, non di ‘ un’altro modello ‘, non di un’ ‘altro mondo ‘, non di ‘un’altra società ‘ , non di ‘ un’altra ideologia‘ in competizione, ma di una classe – quale affastellamento degli oppressi - subordinata, distribuita in tutto il mondo in modo differenziato, equiparata dal Sistema del Capitale a merce e posta in concorrenza al proprio interno al pari di ogni altra merce e dunque esposta alle turbolenze del mercato, delle crisi, dei boom economici, delle depressioni ecc. ecc. Non sempre dunque e ovviamente, si costituisce in classe e non sempre allo stesso modo, ma volta per volta e in precise circostanze, in determinati momenti storici. Gli economisti borghesi alla Ruffolo, non vedono questa ipotesi e se la vedono la temono come l’acido solforico, il perché è presto detto: non sono in grado di capire il materialismo dialettico. Per quale ragione è rivoluzionario il proletariato?. Perché esso viene a essere generato da una contraddizione cruciale alla quale nessun’altra classe al di sopra del proletariato può dare risposta, perché si tratta di scardinare per affossarlo il principio della concorrenza ovvero la legge fondamentale del Sistema del Capitale, la cui escrescenza ne evidenzia l’ultimo stadio a cui è giunto. Si potrà anche obiettare che la concorrenza con il capitalismo è sempre esistita, ma è una obiezione sciocca e antidialettica, perché non tiene conto del ciclo dell’accumulazione, della fase dello sviluppo storico, della ascesa o caduta del saggio di profitto. Siamo ad un passaggio di fase, tra la chiusura di un ciclo che ha visto il proletariato darsi in classe - in quanto classe operaia - e chiedere quota parte sempre maggiore all’accumulazione del Sistema del Capitale di cui è stato artefice; siamo alla conclusione cioè di un cammino comune delle due classi artefici in maniera reciproca dell’accumulazione per un verso e l’apertura di un nuovo ciclo, che vede il proletariato proiettato a compiere una rivoluzione per sé. Per quanto strano possa sembrare, oggi più di ieri il proletariato è una classe rivoluzionaria di fatto, e per di più per sé, piuttosto che per la borghesia come avvenne nel 1917 in Russia , o nel 1949 in Cina, perché solo oggi – cioè in questa epoca storica – è chiamato ad assumere il ruolo che gli compete, portando a compimento in questo modo una lunghissima lotta degli oppressi, coronando un ideale umano che è quello dell’eliminazione dell’oppressione dell’uomo sull’uomo.

1. A. Michel Capitalismo contro capitalismo ed Il mulino/contemporanea 58

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Da Marx a Marx
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Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

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