Ebbene cari lor signori, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, non è possibile schiavizzare la mano d’opera utilizzandola per la raccolta di prodotti ortofrutticoli e cerealicoli  e pretendere che questa non si ribelli nelle forme e nei modi almeno pari all’oppressione subita.  L’ipocrisia pennarola – di destra, di centro e di sinistra, da Il giornale di Berlusconi allo scrittore  Saviano - al servizio del dio Kapital vorrebbe spostare su Mafia, Camorra, Ndrangheta e similari bande di malavitosi, la responsabilità di quanto accaduto a Rosarno  in questi giorni o di quanto accaduto due anni fa a Castelvolturno. Stiamo ai fatti. Gli immigrati,  a Rosarno come nel resto del paese vengono impiegati come braccianti agricoli, quale classe operaia, a nero, perché – si dice ipocritamente – certi lavori i lavoratori italiani non li vogliono più fare. Diciamo diversamente e cioè che vengono impiegati gli immigrati ed a condizioni infami di lavoro proprio perché a quelle condizioni i nostri giovani lavoratori non vogliono sottostare. E si utilizzano gli immigrati come ulteriore fattore di ricatto contro la mano d’opera locale e indurla a più miti consigli. 

A questo scopo sono complementari tanto le associazioni umanitarie come la  Caritas et similia nel loro spirito commiserevole ad evitare che la brutalità dello sfruttamento e della miseria sfoci in ribellione, quanto  le organizzazioni criminali che manu militare tendono a soffocare ogni tentativo di organizzazione e di lotta degli immigrati. I governi nazionali con le loro leggi Turco-Napolitano o Bossi-Fini sanzionano legislativamente il razzismo classista di stato. Entrambe, insieme, operano al servizio del profitto delle imprese, all’interno delle spietate leggi del mercato e della concorrenza. << E’ la tragedia dei 6 centesimi al chilo>> recita il Corrierone confindustriale  milanese << Al netto degli aiuti europei, è il valore di un chilogrammo di arance della piana di Gioia Tauro in questi tempi di crisi>>   a giustificare l’atteggiamento e la necessità per le imprese locali di utilizzare la mano d’opera immigrata in quelle esplosive condizioni. Si, sono le leggi del mercato a rendere il piccolo e medio contadino del sud d’Italia allo stesso tempo fondiario, capitalista e “lavoratore” , essere strozzato dalla concorrenza e dalle banche e rivolgersi - per combattere le necessità  degli immigrati - alle squadracce di camorristi. E lo stato? Si domandano  democratici e liberali.  Lo stato arriva con le sue camionette, con la sua celere, con la sua forza repressiva quando le organizzazioni camorristiche per un verso e quelle commiserevoli per l’altro verso, non ce la fanno a contenere la legittima ribellione dei lavoratori immigrati, del proletariato, di quella classe che non è proprietaria di niente se non delle sue braccia, cioè di questa  classe operaia, a questo stadio di sviluppo del capitalismo ed innanzitutto di questa fase di crisi generale dell’accumulazione del Capitale. In fin dei conti cosa chiedevano gli immigrati? Di essere pagati per il lavoro svolto e siccome siamo alla fine della campagna del raccolto, si è voluto punire e cacciarli via senza pagarli. C’è forse bisogno di dire da che parte sta lo stato?
<< Certo, le botte, le sprangate, gli spari di Rosarno, pur in presenza ormai di un massiccio spiegamento di forze dell’ordine, ci dicono che occorre agire in fretta: Senza tentennamenti.  ….Quando le spie accese indicano un pericolo imminente e diffuso, la politica deve fare il suo meglio.>>  scrive Antonio Macaluso sempre sul Corrierone. Vede lontano il pennarolo, sa leggere esattamente quel che le spie segnalano: un pericolo per la democrazia, per la “civile convivenza” di una piccola parte contro un’altra parte, la stragrande maggioranza della razza umana, bianca, nera, gialla o meticcia che sia.
A Rosarno  è successo qualche cosa che preoccupa e non poco le classi borghesi, è successo semplicemente che i lavoratori neri hanno cominciato a devastare tutto,  definendo cioè cose e persone quali facenti parte di un unico Sistema di oppressione e di sfruttamento.  E l’hanno sfidato - tale sistema - in una sorta di vera e propria guerra civile seppure dagli esiti sfavorevoli scontati. Con questo bisogna fare i conti. Ai lavoratori rosarnesi così come ai lavoratori italiani  si comincia a porre dinanzi il dilemma del ‘che fare? ‘, se cioè assistere passivamente o peggio ancora schierarsi con le forze repressive dello stato in cambio magari di elemosine da esso elargite e immiserirsi ulteriormente oppure cominciare a porre un argine alla prepotenza delle leggi del mercato, della concorrenza, della prepotenza padronale, camorristica, umanitarista e istituzionale.  A cosa serve la farisea manifestazione “antirazzista” all’indomani della cacciata degli immigrati se non al tentativo di lavarsi la coscienza sporca di aver assistito in maniera passiva alla repressione ed alle violenze contro i braccianti sia da parte delle squadracce al soldo delle imprese agricole che della polizia dello stato democratico? Ma serve anche a ripristinare un certo clima “antirazzista” sempre più ricattatorio nei confronti degli immigrati perché di questi si ha assoluta necessità, con il solito codazzo di preti e di anime belle della sinistra a far da battistrada. Tanto bastone e pochissima carota. Ma a Rosarno è successo qualche cosa di molto diverso rispetto agli anni 50 e 60, quando cioè alla violenza mafiosa e camorrista di agrari e  imprenditori si opponevano mobilitazioni politico-sindacali pacifiche e democratiche, e si rivendicava ‘La terra a chi la lavora ‘.  Erano anni proiettati verso un poderoso sviluppo economico, dove trovavano posto sia illusioni che  aspirazioni sia di parte dei contadini poveri che del  proletariato meridionale. La crisi polarizza i campi. La lotta degli immigrati di questi giorni  dice che la crisi morde alle radici del Sistema, che si riducono sempre di più tutti i margini di contenimento, che la compressione sulla forza lavoro non concede mediazioni e che innanzitutto è sciolto e in maniera definitiva il nodo della questione agraria: da una parte le imprese con i loro attrezzi antichi e moderni, dall’altra il moderno e più povero proletariato, la moderna e più impoverita classe operaia. A questo sono chiamati quanti  guardano ad una ripresa generalizzata del conflitto Capitale-Lavoro a scala mondiale, senza piagnucolii. Siamo soltanto ai primissimi prodromi di una inevitabile quanto certa guerra civile.
‘ Il proletariato ha solo da perdere le proprie catene ’ scriveva il nostro Carlo Marx. Eccolo il proletariato che nella crisi irrompe sulla scena,  tende a rompere le sue catene e lo fa a modo suo, nell’unico modo possibile, con la mobilitazione violenta, proporzionata in percentuale infinitesimale a quella subita nel corso di  secoli. Si è conclusa e definitivamente la fase ascendente del Sistema del Capitale, siamo a quella discendente, se ne accorge lo stesso papa e quanti nelle ‘camere caritatis’ sono in grado di leggere questa crisi, cioè nella fase che prepara grandi rivoluzioni non più democratiche borghesi, ma di natura proletarie.

Michele Castaldo
Roma 11/01/10

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

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Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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