Pomigliano: il proletariato tra passato e futuro.

Un vecchio slogan dei lavoratori dell’Alfa sud di Pomigliano d’Arco suonava: << A!  A! Alfa sud!, Alfa rossa sarà! >>, erano gli anni settanta, il Pci contava un milione di iscritti ed aveva un’egemonia assoluta nella fabbrica, i delegati  e gli iscritti al partito si presentavano al lavoro con il giornale l’Unità in bella mostra, la Fiom raccoglieva oltre il 60% degli iscritti al sindacato e la stragrande maggioranza di essi erano iscritti al Pci, una quota inferiore al vecchio Psi non ancora totalmente divenuto il simbolo dell’arrivismo craxiano.

La ex Alfa sud divenne Fiat (il gruppo che ha acquisito tutte le altre industrie automobilistiche italiane: Lancia, Innocenti, Alfaromeo, Ferrari ecc.,  a costo zero, cioè con contributi statali, ed è diventata una multinazionale con aziende sparse in tutto il mondo, oltre che essere agevolata dai vari governi con gli incentivi sulla rottamazione) i dipendenti sono scesi da 12.000 a circa 5.000, si fa continuamente ricorso alla cassa integrazione guadagni, si passa da una produzione all’altra senza che il gruppo riesca a trovare una stabilità produttiva. Nel frattempo il Pci si è disintegrato in mille rivoli, i suoi militanti segnati anagraficamente sono approdati a lidi sempre più socialdemocratici, del giornale di partito non si intravede l’esistenza, la Fiom ha ridotto i suoi ranghi, sono stati costituiti reparti confino per i lavoratori ribelli, si sono costituiti mini sindacati di base a sinistra e robuste rappresentanze sindacali a destra.  Eppure, sono trascorsi solo 35 anni che nella storia della lotta delle classi rappresentano un niente.

Oggi la Fiat si rivolge ai lavoratori dipendenti con un ricatto innovativo, si volta pagina: basta con il passato, basta con la tolleranza nei confronti dell’assenteismo, sia esso per attività sindacale, politica, istituzionale o per malattia. Basta con la tolleranza nei confronti del sindacato ‘Fiom’ in primis in quanto più ancora rappresentativo. Gli accordi si fanno tra l’azienda e il singolo lavoratore che deve accettare le condizioni dell’azienda se vuole lavorare, altrimenti si va a produrre dove queste condizioni sono garantite. Ritorno al passato?, no!, proiezione al futuro.

La prospettiva Fiat

Materialisticamente non assegniamo nessun ruolo o funzione alla personalità sia essa Marchionne oggi o Valletta ieri, ma alle forze impersonali del Capitale che assecondando le sue leggi di funzionamento agiscono. A fronte di difficoltà oggettive dovute alla contrazione del mercato dell’auto, la Fiat ritiene di aver trovato il grimaldello col quale rilanciarsi e uscire dalla crisi: chiudere Termini Imerese, investire nell’impianto di Pomigliano d’Arco 700 milioni di euro per produrre 270.000 vetture all’anno, del modello Panda, e ricattando in questo modo gli operai di Tychy in Polonia. Piani vari ideati dalla Fiat? No, un solo piano: tentare di sgomitare per l’accresciuta concorrenza nella crisi scaricandola sui lavoratori, ricetta che sta nella legge dell’accumulazione: aumenta la concorrenza, si restringono i mercati.

Perché ritrasferire, da Tychy a Pomigliano, la produzione della Panda? Non sarà per caso che la Fiat teme l’esplosione di lotte operaie in Polonia come nel 1980?  In quel paese hanno la strana abitudine di costruire con le lotte sindacati ex-novo, che purtroppo isolati rifluiscono nelle fauci del Capitale. A quali condizioni la Fiat investirebbe un capitale di tale portata? A condizione che il proletariato accetti innanzitutto di smembrarsi non solo in quanto classe organizzata così come è stato fino ad oggi, negandosi anche nei suoi contenuti minimi di coesione sociale e si disponga totalmente al servizio della produttività, ma che subordini la sua stessa esistenza alle esigenze del dio Capitale per quella che è la sua stessa vita oltre la fabbrica, che organizzi cioè la sua esistenza subordinandola alla produzione; si renda merce flessibile alla bisogna, allo stesso modo di ogni qualsiasi altra merce da utilizzare per la produzione.

Per fare questo, bisogna ottimizzare l’utilizzo degli impianti, e dunque lavorare su 18 turni settimanali, che vuol dire la reintroduzione del sabato lavorativo, derogando totalmente dalla legge sul lavoro notturno per le donne; bisogna ridurre al minimo l’assenteismo, e dunque maggiore controllo e possibilità di licenziamento per chi eccede; bisogna ridurre i tempi morti sulla catena e dunque si devono ridurre le pause; bisogna utilizzare al massimo possibile ogni energia del singolo operaio e dunque i controlli li effettua l’azienda con criteri propri di sopportabilità di peso, di movimento e quant’altro; bisogna sfruttare al massimo possibile, attitudini individuali e dunque vanno cancellati i criteri di professionalità acquisiti che ne potrebbero inficiare i ritmi. Ma innanzitutto bisogna abolire la possibilità di scioperare.

Per fare tutto ciò, la Fiat deve disintegrare il ruolo del sindacato per quello che fino ad oggi è stato: una organizzazione minima di contrattazione della forza lavoro, deve arrivare non ancora alla sua cancellazione, ma ad una sua ristrutturazione che vuol dire una totale subordinazione alle necessità produttive e controllo nei confronti dei lavoratori piuttosto che rappresentare gli interessi dei lavoratori nell’ambito delle compatibilità aziendali, che la presidente di Confindustria Marcecaglia ha così ritenuto di sintetizzare: “Su Pomigliano non c’è niente da discutere. C’è da lavorare “.  E se la Fiom e chiunque altro ancora si dovesse illudere, Garofalo, il direttore dello stabilimento precisa: “non faremo più da esattore del sindacato per le quote dei lavoratori” . Un messaggio chiaro e forte a tutto il proletariato italiano, europeo e mondiale. Il vero punto in questione è questo.

La prospettiva dei lavoratori.

Di fronte al nuovo quadro delineato dalla Fiat, cerchiamo di capire innanzitutto l’umore dei lavoratori, più che delle forze politiche e sindacali, di stabilire i livelli di sintonia e di sincronia del comportamento operaio rispetto alle sue precedenti organizzazioni tanto sindacali quanto politiche.

Prendiamo perciò a esaminare alcune voci dall’interno dei lavoratori.  “Non siamo polacchi” è l’espressione della parte ritenuta più coesa e combattiva, quella che fa ancora riferimento alla Fiom e che in qualche modo  rappresenta la coda della classe operaia organizzata dall’ex Pci, così come si diceva in apertura. Al di là delle percentuali più o meno attendibili distribuite dai media, ci interessa fissare su questo settore di lavoratori l’attenzione, in quanto rappresentante della materia prima del vecchio ciclo transeante nel nuovo ciclo. Dal vecchio ciclo aveva ereditato il mito del lavoro quale fattore fondante di dignità umana; una visione del mondo fondata sui doveri prima ancora che sui diritti ma che questi dovevano essere a fondamento della dignità dell’uomo, dunque sanciti nella carta costituzionale alla quale appellarsi per farli ristabilire, ripristinare e rispettare; una sorta di polizza assicurativa. Diritti acquisiti in anni di lotte in un ciclo affluente del sistema del Capitale quale possiamo considerare il dopoguerra, la cui sintesi era una coesione sociale di natura sviluppista, in cui si riteneva di poter crescere insieme: l’accumulazione del capitale,  e con essa l’accumulazione della forza contrattuale della classe proletaria. Una visione, che potremmo definire da seconda internazionale, per parlare da “addetti ai lavori” del campo proletario.

Di fronte al fatto che la Fiat tenti un colpo grosso - e non sarà l’ultimo - su libertà, licenziamenti e organizzazione si appella perciò alla costituzione, a principi precedentemente sanciti e dunque ne invoca l’inapplicabilità di norme contenute nel ricatto dell’azienda per rilanciare la produzione. Una illusione che esprime una posizione zavorrata; gli operai che nel corso degli anni  sono passati da essere dipendenti di un’azienda a partecipazione statale a una privata, sono stati costretti ad arretrare a causa di ristrutturazioni, subendo licenziamenti politici, reparti confino, cassa integrazione, oltre alla rapina sul Tfr, aumento dell’età pensionabile, introduzione per legge sulla flessibilità, accordi separati firmati dalle organizzazioni sindacali più moderate ecc. . Un quadro pesante in cui i lavoratori avvertono il dramma che sta per abbattersi su di loro previo l’infame ricatto, ma sentono di non avere la forza sufficiente per reagire e far arretrare la Fiat.

Nella locuzione “non siamo polacchi”, c’è lo stato d’animo di un proletariato che guarda al passato e che non ha ancora preso coscienza del futuro e dunque viene ad essere negato al presente.

In questo stato d’animo operaio, deve essere letta tutta una fase di transizione in cui il proletariato in specie in Occidente sarà costretto ad attraversare quale purgatorio prima  di ridestarsi a nuove lotte per ricostituirsi in classe diversamente che per il passato. Questa è la questione. Gli operai, non credono ai propri occhi, e sono smarriti, si ritrovano nella loro splendida solitudine: senza più un partito, il vecchio Pci, i cui rimasugli riciclati con i vecchi democratici cristiani ignorano totalmente il loro dramma perché sostengono i piani di un rilancio dell’azienda Italia all’interno di una crisi mondiale grave; una parte dei sindacati confederali come Cisl e Uil che prima erano unitari perché costretti dalla volontà di lotta dei lavoratori oggi tirano sempre di più verso le necessità padronali; un governo nazionale di centrodestra che mette in  discussione diritti acquisiti e per fare questo punta  a smantellare la stessa costituzione. In questo quadro, la Fiat dice: se volete lavorare lo potete solo a queste condizioni, altrimenti “siamo costretti a investire a Est e sempre più a Est fino a verso l’Oriente”.

C’è un bel di che dire “non siamo polacchi”, il problema è che il proletariato occidentale è sempre più non solo polacchizzato,vedi Wal Mart e General Motors,  ma è destinato a essere cinesizzato.  Duro da digerire, ma questo è. Gli operai possono anche negarlo con le parole, ma sono “polacchi” a tutti gli effetti, e destinati a essere cinesizzati,  a meno che … non si cinesizzano, ovvero non ingaggiano battaglie come hanno fatto nelle scorse settimane alla Honda in Cina.

Le ipotesi.

Di fronte al quadro sopra essenzialmente seppure schematicamente delineato, si fanno avanti alcune ipotesi, cerchiamo di capire lo spessore di proiezione in esse contenuto.

Di una parte, certamente quella delle organizzazioni sindacali più conservative come Cisl e Uil e con esse le forze politiche e sindacali che sostengono il governo, appoggiano la bontà dell’operazione Fiat, ritenendola  favorevole per una ripresa di tutta l’economia nazionale ed un serio tentativo di uscire dalla crisi . Al più, si può sempre “contrattare” nelle commissioni paritetiche ogni diritto leso dei lavoratori.  Dunque ci si attivizza per sostenere il referendum voluto dall’azienda e si invitano i lavoratori a votare per  il ‘Si’. Non solo, si mobilita una parte di lavoratori, impiegati, operai e loro famiglie a sostegno della ripresa produttiva e dunque all’aperta dichiarazione del ‘Si’ al referendum.  Che i colori di questa manifestazione ricalcano l’azzurro del partito governativo, poco fa, la sostanza è che si accetta la proposta Fiat senza profferir parola perché si ritiene che sia all’oggi il meglio possibile.

Una maggioranza silenziosa che pur non manifestando -per dignità- ritiene l’accordo da accettare obtorto collo, quale male minore, indipendentemente dall’adesione a Cisl e Uil e le organizzazioni sindacali di destra e padronali. La stessa Cgil non può rappresentare sé stessa, è parte integrante di quell’umore della maggioranza silenziosa che è presente sia alla Fiat ma innanzitutto nelle industrie dell’indotto su cui grava il ricatto Fiat. Poi ci sono lavoratori molto arrabbiati, aderenti a formazioni minoritarie di sindacalismo di base, che si scagliano contro quelli che manifestano per il ‘Si’ all’accordo definendoli servi dei padroni. Si tratta di uno sfogo naturale, ma molto minoritario fra i lavoratori.

Torniamo a quello che un tempo veniva definito lo zoccolo duro, gli aderenti alla Fiom, che se per incazzatura sono molto vicini ai lavoratori che aderiscono al sindacalismo di base, in realtà hanno il senso del reale dovuto alla lunga militanza maturata al senso di responsabilità, al rispetto delle leggi, al fidarsi delle istituzioni ecc. e dunque vengono sballottati da una parte all’altra proprio perché non trovano sponde disponibili alle loro istanze, né nella Cgil, né nelle istituzioni, né nel Pd .  Dunque pur masticando amaro nei confronti della Fiat non trovano – qui un punto importante della questione – la forza di organizzare una mobilitazione contro la Fiat e di conseguenza contro coloro che sostengono una resa senza condizioni nei confronti della Fiat stessa. I risultati del referendum marcheranno esattamente questa situazione: il 60% per il Si, dunque una maggioranza seppure risicata e silenziosa; il 40% dei No, una “minoranza” più robusta delle pretese padronali e governative, ma al momento non attiva in una mobilitazione.

Da una parte una maggioranza che pur intravedendo nelle imposizioni della Fiat un cappio al collo, ritiene di non potersi al momento sottrarre. Se la questione è ‘Prendere o lasciare’, meno peggio è prendere, questo il senso del realismo popolare. Della serie ‘che pane è questo? piuttosto che desiderare il pane’.  Realismo che non si illude di ripristinare uno ‘status quo ante’, ma di conservare meno di quel che si aveva e dunque realismo conservatore. Per la minoranza si tratta una manifesta volontà a non voler subire il ricatto e tutto quello che c’è dietro, ma si ferma - al momento -  al voto nell’urna, ovvero al tentativo di voler far valere la forza della volontà perché al momento incapace di far valere la volontà della forza. Con questi umori, bisogna fare i conti piuttosto che prodursi in idealistici proclami di sinistra del tipo:

“….E allora diciamo con rispetto a quei lavoratori “Prendetevela la fabbrica, occupatela” altro che il campo di calcio che il signor Marchionne ci vorrebbe costruire. “; oppure  “La soluzione? La gestione passi ai lavoratori!, ….in un modo tutto da inventare, come fecero i portuali di Genova” .

Se ci si rivolge in questo modo ai lavoratori, non si è presi sul serio. A nulla valgono piccole e/o brevi nonché circostanziate esperienze di autogestione che si collocavano in un ciclo dell’accumulazione diverso da quello attuale. L’esempio dei portuali di Genova è del tutto fuori luogo.

Oggi la questione si pone nei seguenti termini: o è vera la crisi economica, questa crisi economica, e quella dell’auto in particolare, oppure si tratta di fantasie. I lavoratori sono abituati a stare con i piedi per terra e sanno benissimo se il mercato tira oppure no, così come sanno perfettamente che in altri paesi, all’Est e in Oriente, la mano d’opera costa meno, e pur non ritenendosi “polacchi”, temono di essere “addirittura” preferiti ai polacchi. Questo è il vero nodo della questione. Parlare ai lavoratori con le “idee” massime, equivale a non farsi prendere sul serio. Si tratta perciò di avere l’umiltà di capire cosa matura dal corpo sociale dei lavoratori piuttosto che cercare di sovrapporsi ad esso.

La vittoria della fiat è una vittoria di Pirro.

La vittoria della Fiat a Pomigliano (e non solo, nonostante alcuni scioperi a Torino, Termini Imerese e altrove) è una vittoria di Pirro, come sostiene qualche vecchio sindacalista che di comportamenti e umori operai se ne intende.

Che i lavoratori siano costretti ad accettare obtorto collo un ricatto infame, proprio perché di ciò si tratta, contiene in sé il germe dell’esplosione, una vera e propria bomba a orologeria. Non si illudano i funzionari della casa automobilistica di Torino così come non si devono illudere quelli della General Motors, allo stesso modo di come si stanno disilludendo i funzionari  della Honda in Cina in questi giorni.

Non siamo nell’immediato dopoguerra dove cresceva vertiginosamente l’accumulazione e con essa l’aspettativa operaia, e nemmeno nell’autunno dell’80, dove bastò una ristrutturazione e migliaia di  licenziamenti - con prepensionamenti e cassa integrazione straordinaria, dunque non ‘fame’ -  per rilanciare una produttività senza precedenti nella storia dell’auto in un quadro mondiale ancora in crescita dell’accumulazione in generale e dell’industria automobilistica in particolare, questo per un verso.

Per l’altro verso non è ipotizzabile costruire una prospettiva ritenendo che il proletariato continui ad arretrare fino a essere buttato nel burrone e disintegrato. Il proletariato si è mondializzato, si vanno congiungendo i vari segmenti da tutti i continenti, basta leggere quello che scrivono i lavoratori polacchi della Fiat di Tychy in questi giorni. Non lo si può disintegrare. Il Capitale, suo malgrado lavora per la sua stessa distruzione.

Che fare?

Proprio perché non neghiamo le difficoltà dei lavoratori, ci dobbiamo rivolgere ad essi non dall’alto di un supposto programma massimo, ma cercando innanzitutto di comprendere le loro difficoltà, cercando di saper parlare a tutti i settori, a cominciare da quelli che hanno manifestato per il ‘Si’, perché se è vero che si fanno promotori di una resa incondizionata, è altrettanto vero che sono i più illusi e meno combattivi. Parlare ad essi con la consapevolezza che questo ricatto sarà esso stesso messo in discussione dall’azienda perché incontrerà serie difficoltà di mercato e dunque a nulla sarà valso arrendersi senza neanche porre certe condizioni.

Saper parlare alla maggioranza silenziosa cercando di spiegare loro che comprendiamo le loro difficoltà, ma che accettare il ricatto come il meno peggio, senza neppure far sentire con la propria voce la forza della propria ragione, vuol dire predisporsi al peggio quando la Fiat incontrerà nuove difficoltà di mercato.

Parlare agli iscritti Fiom che si appellano alla costituzione ed ai costituzionalisti dicendo loro che comprendiamo le loro difficoltà, ma che purtroppo non basta. Le leggi si fanno e si disfano a partire dai rapporti di forza. Dunque sono questi che bisogna ricostruire.

Parlare agli iscritti ed ai militanti del sindacalismo di base, con lo spirito fraterno ma critico che invita a comprendere che il proletariato non può essere visto per  comparti quali avanzati, intermedi ed arretrati e che sull’esempio dei più avanzati devono essere trascinati quelli intermedi e questi a loro volta dovrebbero influenzare quelli più arretrati e magari ….bastonare quelli ancora più arretrati.

Il ‘No’ al referendum per dire ‘No’  al ricatto della Fiat potrebbe essere letto come un messaggio del tipo: devo accettare, ma non sono d’accordo dunque sono sul ‘chi va là ‘.

Conclusione

Senza immettere o sovrapporre niente di più di che quello che il voto e il comportamento operaio ha espresso e sta esprimendo a Pomigliano e in Italia e senza costruirci scenari all’immediato più rosei di quello che realmente sono, come marxisti non andremo a crocifiggere i Bonanni - servi sciocchi del dio Capitale - additandoli quali responsabili dell’attuale ulteriore arretramento dei lavoratori, perché il proletariato è stato accresciuto, corrotto e da sempre ricattato dal Capitale di cui Bonanni, la Cisl, la Uil, la Fismic, la Ugl, per certi aspetti la stessa Cgil, ne sono delle emanazioni dirette e/o indirette.

Il risvolto materialista, composto e reale di un atteggiamento Comunista è:

a)      impostare una vera e propria campagna di controinformazione dei contenuti reali e suoi risvolti del documento Fiat, azionare cioè tutte le energie e le risorse disponibili a che gli operai abbiano chiaro la portata dell’ “Accordo” ;

b)      rivolgersi ai lavoratori, a tutti i lavoratori dicendo: Il senso del ricatto della Fiat è chiaro a tutti voi. Comprendiamo il vostro disagio, le vostre perplessità, le vostre preoccupazioni, le vostre illusioni. Se decidete di rivolgervi ai lavoratori di Tychy e con essi lottare, staremo con voi ed alla vostra testa, ci renderemo vostri strumenti nella battaglia. Diversamente continueremo a comprendere le vostre preoccupazioni e al vostro primo destarvi vi staremo a fianco, avendo la consapevolezza che un programma generale dei lavoratori può scaturire solo e soltanto dalla vostra attiva mobilitazione, convinti come siamo che ‘ L’emancipazione del proletariato è opera del proletariato stesso ‘.

Chi da tutta la questione Fiat (di Pomigliano, perché italiana e dunque nazionale, ovvero mondiale) ne trae la conclusione che bisogna costruire un altro sindacato ed un altro partito, non ha capito che le energie devono provenire dai lavoratori o nessun’altro lo potrà fare per loro. I lavoratori non hanno bisogno di un altro sindacato o di un altro partito. Hanno necessità di lottare e di costituirsi in classe, dunque in sindacato ed in partito politico.

 

michelecastaldo

giugno 2010

 

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