Alcune considerazioni sulle questioni sollevate dai compagni dei Nuclei Leninisti Internazionalisti nell’articolo del 5 ottobre 2012 pubblicato sul loro sito.

Premesso che mi ero gia espresso sulle rivolte arabe con un particolare riferimento alla Libia, pubblicando sul mio sito una “Lettera aperta a militanti e gruppi politici che direttamente o indirettamente si richiamano al marxismo”, ci ritorno ancora perché lo scritto del compagni dei NLI – seppur estremamente minoritari come gruppo politico (dunque di guerre in ditali di cristallo) meritano una qualche pacata e serena considerazione in quanto assumono alcune tesi non proprio chiare da un punto di vista materialista. Vediamo di che si tratta. Polemizzando con il primo numero della Rivista “il cuneo rosso” – parliamo di ex compagni dello stesso gruppo, l’Oci, che pubblicava e ancora pubblica (quelli rimasti fedeli all’Oci e alla testata, pur se in numero ridotto) il giornale “che fare”, lo stesso ceppo insomma – e senza per questo ergermi a difensore dei compagni della rivista in questione, risponderanno loro se lo riterranno opportuno. A loro semmai va il merito – insieme a pochissimi altri - di aver avvicinato l’obiettivo ai fatti realmente accadenti e aver tentato di fornire più elementi per comprendere l’origine e la natura dello scontro, oltre l’ideologismo ed a vol d’uccello, con il quale siamo abituati a guardare i soggetti in campo. Veniamo alle questioni.

Scrivono i Nuclei:

<<Noi possiamo anche convenire che non è credibile l’immagine di una rivolta anti-Assad orchestrata da cima a fondo dall’esterno, dall’Occidente e dai suoi soci locali tipo Arabia e Qatar, ma che da parte di costoro si sia scientemente giocato sin dall’inizio su fattori destabilizzanti interni per muovere le proprie truppe d’assalto all’appetitoso bottino siriano è un dato di fatto (ben chiaro sin dall’esperienza jugoslava). >>.

Attenzione bene.

Una delle tesi fondanti del materialismo storico e dialettico, è che la coscienza segue l’azione, ovvero che la coscienza è espressione dell’azione, non la precede. Ora, se si afferma che una rivolta anti-Assad non sia orchestrata da cima a fondo dall’esterno, cioè dall’Occidente famelico, bisogna avere la pazienza, la capacità e la forza di saper spiegare da cosa ha origine quella rivolta anti-Assad, in primis. Solo in secundis bisogna capire e spiegare perché essa – complessivamente – viene ad essere utilizzata dall’Occidente famelico. Se non si assolve al primo compito, si finisce in una logica complottistica, secondo cui chi anche per interne ragioni si è rivoltato contro Assad lo ha fatto per asservirsi ad un interesse superiore. Non è così. In questo modo non spieghiamo i fatti realmente accadenti, ma ci rifugiamo dietro uno schema a priori valido da che ebbe inizio il capitalismo. Quanto poi all’esperienza jugoslava, i compagni dovrebbero spiegare come mai e perché l’Occidente ha potuto disgregare la Jugo senza colpo ferire, senza cioè che ci sia stata da parte del proletariato una reazione sia alla guerra fratricida prima, che ai bombardamenti poi. A mio modestissimo modo di vedere, i compagni dei Nuclei sono legati ad uno schema secondo cui la storia si ripete sempre uguale a sé stessa, e riparte sempre dal punto dove precedentemente era arrivata. Purtroppo hanno torto, perché il modo di produzione capitalistico ha scavato in profondità, ha permeato e si è esteso a tutto il pianeta e quello che a noi sembrava essere il soggetto che avrebbe dovuto sconfiggere il capitalismo – non si sa bene in che modo ed in virtù di quali taumaturgiche capacità nel divenire classe per sé – è stato integrato per tutta una fase nei meccanismi del Capitale in Occidente ed aspira ad essere integrato nei paesi di giovane capitalismo, fra cui Egitto, Iran,Tunisia, Algeria, Siria e Libia compresi, per non dire di Cina, India, Brasile, Argentina, Venezuela e cosi via. D’altra parte Engels nel suo libro capolavoro, l’Antiduhring, lo dice chiaramente, quando afferma <<….In ogni periodo, il nesso tra la distribuzione e le condizioni materiali di esistenza di una società è così insito nella natura delle cose da rispecchiarsi regolarmente nell’istinto popolare. Sin quando un modo di produzione si trova nella fase ascendente della parabola del suo sviluppo, è salutato con gioia persino da coloro che nel modo di distribuzione ad esso corrispondente hanno tutto da perdere. >>[1]. Il punto in questione – così come già scrivevo nellaLettera ai militanti …” è che in Occidente il capitalismo è visto in crisi, una grave crisi, sia da analisti borghesi seri, che da (pochissimi) marxisti; in quei paesi di giovane capitalismo è visto ancora in ascesa, anche o forse soprattutto dalla stragrande maggioranza della popolazione. Per cui la tesi di Engels calza a perfezione. Sono imperfetti, quei compagni che pretendono che le masse popolari di quei paesi, guardino il Capitalismo occidentale con gli stessi occhi con i quali lo guardiamo noi dal di qua. Stando cosi le cose, una nuova resistenza anticoloniale con le stesse caratteristiche degli anni venti, per un verso, e trenta, quaranta, cinquanta, sessanta, settanta, per l’altro verso, cioè fino al Vietnam e Iran 1979, per capirci, non è più riproponibile. Tanto è vero che non si è data, e non soltanto perché sarebbe diventato più potente l’Occidente, cosi come si è tentati di credere da parte di formazioni politiche che si richiamano al marxismo, ma anche o forse soprattutto perché sono cresciute all’interno dei paesi di giovane capitalismo quelle insofferenze materialmente emulative di cui parlava Engels nel citato passo. Altrimenti detto: si va riducendo quell’apertura di forbice tra il proletariato occidentale e quello dei paesi di giovane capitalismo, ovvero un impoverimento del proletariato occidentale e una proletarizzazione di sterminate masse povere dei paesi di giovane capitalismo con riflessi emulativi di integrazione delle nuove generazioni non immediatamente proletarie che mal sopportano le necessità centralizzatrici di quei governi in questa fase per obbedire alle leggi del mercato. Si spiegano in questo modo i fenomeni di piazza Tahrir in Egitto. Un principio che vale per tutti i paesi sottrattisi al gioco colonialista.

Proseguiamo nel ragionamento analizzando quanto ancora scrivono i compagni:

<<Ed allora va chiarito come quegli “alcuni” di cui sopra abbiano svolto già in partenza il loro ruolo di apertura all’intervento imperialista in forza di propri interessi di classe “antipopolari” cui legare un “movimento” evidentemente non in grado di affermare le proprie ragioni antagoniste. Se “sarà il popolo a perdere” non dipende da un caso (e tanto meno dall’abbandono dei metodi pacifici di lotta), ma da un preciso rapporto di forze tra le classi a noi sfavorevole cui l’“anima popolare” non ha saputo o potuto reagire sin dagli esordi della vicenda in corso.>>.

E però, attenzione bene. Qui mi rivolgo non tanto o non soltanto ai compagni dei Nuclei, quanto piuttosto a quelle formazioni politiche ed a giovani compagni che purtroppo vedono sempre il buio oltre la siepe, ovvero scorgono sempre il complotto del Moloch.
Proviamo a ragionare. E se sarà il popolo a perdere - scrivono i Nuclei - non dipende da un caso. Giusto, ma - attenzione bene – <<da un preciso rapporto di forze tra le classi a noi sfavorevole cui l’anima popolare non ha saputo o potuto reagire sin dagli esordi alla vicenda in corso>>. Siamo alla metafisica, cioè alla coscienza a priori, al “sapere” preventivo, al programma a priori, al partito a priori e cosi via. Ora, il materialismo è un’altra cosa, tanto è vero che la Prima Internazionale nacque successivamente alla nascita del proletariato incosciente, che la Seconda pure, che la Terza altrettanto, per l’esattezza a seguito della rivoluzione sempre più incosciente, quella russa. Perché mai dovrebbero fare eccezioni le lotte degli oppressi di questa fase storica? Ma a questo punto sorge una domanda abbastanza inquietante: o le masse hanno coscienza di un loro agire in una determinata direzione - che noi diciamo verso la rivoluzione anticapitalista - oppure è meglio che stiano ferme? Questo modo di ragionare che rispecchia in filigrana l’impostazione dei Nuclei sulle rivolte arabe, non è materialista, ma fa leva sui propri concetti nel guardare le masse e la lotta di classe. C’è un <<preciso e a noi sfavorevole rapporto fra le classi>> e allora? Se ci si muove c’è il pericolo garantito di finire strumento dei predoni imperialisti. Dunque? Meglio non muoversi? Non credo che i compagni pensino questo, nel qual caso, buona fortuna!, ma il materialismo è altro.
Le masse – tutte le masse – lottano d’istinto, obbediscono ad un Riflesso agente che non può in alcun modo avere la consapevolezza, la coscienza, meno ancora la proiezione del calcolo, ancor meno del calcolo di classe, così come pretendono che avvenga i compagni dei Nuclei. Questo principio è valido per tutte le classi sociali, al di sotto ed al di sopra del proletariato. La coscienza – che è conoscenza dell’accadente - è sempre successiva all’azione, questo è un principio basilare del materialismo storico e dialettico. Se lo si vuole capovolgere, ci si accomodi pure, ma si spieghi perché.

Andiamo avanti. Scrivono ancora i compagni:

<< Oggi come oggi è chiaro a tutti che la Siria è l’oggetto di uno scontro per la spartizione del paese tra potentati locali e internazionali criminali interessati alla cancellazione dell’“anomalia” di un regime in qualche modo, sia pur (molto) relativamente, autonomo e contrapposto agli interessi dei pretendenti al bottino di cui sopra, in nome di un più severo “nuovo ordine” imperialista. >>

<< Oggi come oggi è chiaro a tutti …>> Tutti chi? I nostri interlocutori, cioè noi stessi riflessi allo specchio? Cioè tutte quelle minuscole organizzazioni che si rifanno al marxismo o anche ad altre tendenze in difesa degli interessi degli oppressi? Bene, siamo lo 0,0001%. Dunque una guerra di idee tra pochissimi “intimi” che è lontana anni luce dalla coscienza dei movimenti reali delle masse. In base a quale criterio le masse dovrebbero seguire l’indicazione di questa infima minoranza? In base a un’idea che proietta la natura dello scontro di classe in direzione dell’anticapitalismo e del comunismo. Ma tanto l’uno quanto l’altro rappresentano la risultante di un percorso che le masse devono compiere a partire dai fattori oggettivamente determinati. Anteporre l’idea all’azione, la coscienza all’azione, la costruzione del Partito all’azione, è una operazione di ….libero arbitrio che possono fare non le masse, ma chi dall’elaborato storico traccia una proiezione nel divenire storico. La storia del movimento operaio è la conseguenza di un periodo precedente di storia sociale e di lotta di classe, che i suoi massimi esponenti hanno descritto e raffigurato come storia materiale. Le nostre idee o si raccordano con il movimento reale della materia o vanno per proprio conto, il conto dei “dovere”, ovvero dei “si dovrebbe fare cosi e cosà”. Dunque quel “tutti sanno” si riferisce a quelli che sanno, cioè lo 0,0001%. Quelli che non sanno – e sono la stragrande maggioranza - sono avvolti in un sanguinoso scontro, partendo da propri istintivi interessi materiali. Tutti imperialistici? Tutti al servizio del Moloch? Tutti prezzolati? Non scherziamo, cari compagni. O siamo in grado di capire e aiutare a capire, dimostrando che la natura dello scontro origina da una grave crisi di Sistema, o finiamo comunque nella sporta del complottismo campista e suoi addentellati che non vede mai la progressione storica dell’acuirsi delle contraddizioni che lo stesso Sistema in grave crisi produce, mostrando una parte del Sistema composito contro un’altra parte scomposita e dunque sempre la seconda succube della prima. Le rivolte arabe – così come ho già sostenuto nella mia ‘Lettera aperta ..’ rappresentano una nuova e più avanzata fase del procedere storico delle contraddizioni fra le classi, e se anche nell’immediato c’è uno spazio per l’utilizzo da parte dell’imperialismo, esse sono foriere di un secondo e più avanzato scontro e di messa in crisi dell’intero Sistema del Capitale. Basta guardare a quanto accaduto in settembre 2012 a Bengasi, dove a cadere sotto la violenza dell’odio “islamico” è l’ambasciatore americano, quel tal Chris Stevens, ovvero l’ispiratore del Consiglio nazionale di transizione a cui fu imposto di fare richiesta di aiuto nientemeno che alla Nato per far fronte alla prepotenza di Gheddafi che soltanto a maggio dell’anno scorso era arrivato a Tripoli accolto a braccia aperte dai “nuovi” dirigenti libici. La storia ha una durezza al cui cospetto il granito ci fa la figura della pietra pomice. Difatti, Fiamma Nirestein sapeva che i conti li avrebbero dovuti fare ma che non se ne doveva e poteva fare a meno di intervenire. <<….E noi avremo la forza per farceli >> scriveva: era l’urlo della disperazione imperialista, non la forza di proiezione di un nuovo colonialismo.

Proseguiamo:

<<…Valanghe di dollari, armi ed armati stranieri sono sul campo per l’operazione di rapina e schiavizzazione della Siria, e non varrà nulla una “soluzione negoziata” tra le parti in conflitto all’interno del paese, come vagheggia Tariq Ali, ma l’unica via d’uscita potrebbe esser costituita – ove ce ne fossero le forze solo da una risposta di “popolo” all’invasione in corso ben oltre il recinto della “normalizzazione antiterrorista” di un Assad cui strappare l’insegna di difensore di una anticlassista ed antipopolare “indipendenza siriana” priva di sbocchi (e, comunque, meno indegna dell’arruolamento al carro imperialista, come nel caso del “primaverile” Morsi che se ne va in Turchia a proclamare la necessità di un intervento militare “islamico” in concorrenza con quello occidentale, il “sinistro” Hollande in primis). Nel caso che Assad resti solo sulla trincea della difesa della Siria dalle bestie pronte ad azzannarla noi non possiamo che essere incondizionatamente contro l’interventismo straniero, chiamando i proletari di qui ad opporvisi (visto, tra l’altro, lo stretto nesso che anche in casa nostra lega questo interventismo in casa d’altri con quello antiproletario in casa nostra). Quanto abbiamo già scritto sul caso-Libia valga da esempio e da orientamento.>>
Punto primo: <<ove ce ne fossero le forze>> esprime un “sarebbe auspicabile”, dunque un proprio desiderio che allo stato delle cose non è dato.  Ora, se la storia passata non la si analizza con i se e con i ma, perché lo stesso principio non dovrebbe valere per il presente e le proiezioni a venire? Sarebbe più opportuno e giusto cercare di spiegare e aiutare a capire il perché oggi, in una nuova fase del capitalismo, quella risposta di popolo auspicata non si realizza. Perché non si fa questo sforzo? Perché dovremmo spiegare che le condizioni economiche e sociali che consentirono quell’unità di popolo costituitasi nel passato in Vietnam, in Cina, a Cuba, in Iran, Algeria ecc. oggi non è più possibile, perché si sono modificati i rapporti interni ai paesi di giovane capitalismo, Libia e Siria compresi. Che questi siano diventati più appetibili alle fameliche mire occidentali, non vuole affatto dire che ci troviamo nelle stesse condizioni del passato, della prima fase del colonialismo che proiettava un modo di produzione verso una straordinaria accumulazione e sviluppo. E’ una differenza che dobbiamo prendere in seria considerazione, non perché non esiste più l’imperialismo, ma perché nei paesi di giovane capitalismo si vanno aprendo contraddizioni di classe proprio a causa di una più generale crisi di Sistema del Capitale che prima non esisteva. A mio modo di vedere è infinitamente più proficuo spiegare questo ed aiutare a farlo capire alle nuove generazioni, che vengono ad essere sensibilizzati a porsi interrogativi sul futuro, piuttosto che ripetere in maniera stantia che l’imperialismo è banditesco. E’ sempre giusto sostenerlo, non è sempre necessario ripeterlo in assenza di argomenti sul perché il capitalismo non è sempre uguale a sé stesso, pur se si comporta sempre allo stesso modo.

Procediamo

<<A sostegno delle tesi del “che fare” n. 56 del 2001:

“L’islamismo radicale proclama la guerra santa contro l’Occidente. Ma è in grado di organizzarla per davvero e di condurla alla vittoria? La nostra risposta è no. Non perché violento contro l’Occidente. Bensì perché incapace di organizzare quella mobilitazione unitaria di tutte le energie del mondo islamico e del resto del Sud del mondo che una tale battaglia richiede. Perché non vede e non vuol tagliare le radici della dominazione imperialista. Perché – al fondo – contrapposto all’unica prospettiva, quella comunista, realmente in grado di fare l’una cosa e l’altra”.>>
Prendiamola seriamente in esame la citazione, perché in essa è contenuta la tesi di fondo di tutta una corrente teorica e politica.
L’islamismo non è in grado di condurre coerentemente una guerra santa contro l’Occidente. Il motivo fondamentale risiede nel fatto che l’Islam in quanto religione è espressione di un contesto storico economicamente determinato, che viene messo in discussione dalla crisi generale del Capitalismo. Insomma la crisi economica non mette in discussione solo l’economia, ma tutto un equilibrio strutturato dei vari segmenti sedimentati nel corso dei decenni e dei secoli. Perché se astraiamo la prospettiva islamista a puro programma ideale o ideologico rischiamo di dire quel che non è, rimovendo quel che invece è. E mi spiego. La crisi generale di tutto il Sistema del Capitale mette in crisi lo stesso Islam in quanto corpo ideologico-religioso – costituitosi durante lo sviluppo combinato e diseguale del modo di produzione capitalistico che ha centralizzato verso l’occidente le risorse. Dunque la religione è emersa come strumento ideologico di coesione sociale contro l’Occidente. Il procedere dell’accumulazione del Capitale, ad un certo stadio – come quello attuale – sta generando la crisi in tutto il Sistema, la cui reazione è scomposita e non omogenea, di riflesso mette in crisi quell’ipotesi che puntava quale fattore avverso all’Occidente e perciò coagulante, ma sullo stesso terreno strutturale dell’Occidente stesso, cioè mercato, valore, profitto ecc. pur se moralmente più equilibrato. Dunque non può proporsi come antisistema ed è destinato a decomporsi.  L’esempio più eclatante è rappresentato proprio dai Fratelli Musulmani in Egitto e dalle mobilitazioni di piazza Tharir. Si tratta di un fenomeno destinato a incrementarsi, non ad arrestarsi. Per cui la natura della sua incapacità a far fronte alla crisi, va ricercata nella natura della crisi stessa.  L’Islam nelle sue varie articolazioni guarda all’indietro dei processi storici economicamente determinati, e rincorre un capitalismo nostalgico ed armonioso, all’interno di ogni nazione, senza cioè affondare il coltello della critica nelle leggi di funzionamento del modo di produzione del Capitale. Per questa sua natura strutturalmente fragile e inconcludente, non può in alcun modo rappresentare – oltre la retorica della “Guerra Santa” - una vera alternativa di Sistema. Dunque il nerbo della critica all’Islam, seppure non articolato, è corretto. Insomma non può essere una concezione ideologica a mettere in crisi un Sistema, tanto è vero che non lo ha messo in crisi, anzi corrono le varie frazioni islamiste al capezzale del Capitale proprio con l’acuirsi della crisi. Basta guardare, ripeto, a come si stanno movendo i Fratelli Musulmani in Egitto per capirlo. Parliamo d’oggi, non del 1920, su cui andrebbe fatto un altro tipo di ragionamento che non é il caso qui di fare, ma che va eventualmente ripreso in altra sede.

<<Perché al fondo – dicono i compagni – l’Islam si contrappone all’unica prospettiva, quella comunista realmente in grado di fare l’una cosa e l’altra>>.
Perché – chiedo ai compagni – la prospettiva comunista è l’unica in grado di <<organizzare una vera mobilitazione contro l’imperialismo e di tagliare le radici della dominazione imperialista >>? Se lo si dovesse fare in maniera coerentemente materialista, si dovrebbe arrivare alla conclusione che l’unica prospettiva – quella Comunista – è data solo e soltanto da una crisi generale del modo di produzione e di una rimessa in moto quale riflesso agente delle varie sezioni del proletariato internazionale quale affastellamento degli oppressi. Se è così, va capita e spiegata in primis la crisi ed il suo portato, e scopriremmo che essa ha i suoi risvolti anche in Libia e in Siria, e che il banditismo degli imperialisti di questa fase storica, è il simbolo della loro debolezza piuttosto che della loro forza. Dunque non è il programma dei Comunisti che costituisce la vera prospettiva e perciò la forza di una lotta coerentemente antimperialista e anticapitalista, ma la natura stessa del Capitalismo, che lo porta di crisi in crisi al crollo, trascinando con sé anche quelle retoriche “guerre sante” e aprendo la prospettiva di una messa in discussione dei suoi elementi fondanti, quali la legge del valore, la concorrenza, il mercato. Solo all’interno di questo generale sgretolamento può emergere – quale riflesso agente – un nucleo centrale di masse, che chiamiamo proletariato, che comincia con l’azione, cioè con la lotta, a maturare una propria coscienza, e dunque un proprio programma. Chi pretende di anteporre il programma all’azione della classe, ha capito molto poco del materialismo dialettico. Altrimenti detto: tra il passato e il futuro, per un verso, non si colloca il perpetuarsi della storia sempre uguale a sé stessa e, per l’altro verso, non si colloca l’Utopia, ovvero al di là del guado del presente, ma l’ideale presente, espressione già critica del presente.
Il tutto basta e avanza per concludere che, se un ruolo vogliono realmente svolgere le cosiddette avanguardie comuniste in Occidente – perché è da qui che parliamo – questo deve consistere innanzitutto nel denunciare sì il ruolo brigantesco dell’imperialismo occidentale, ma in quanto leone gravemente malato per le sue arterie ostruite dal colesterolo e da focolai di virus purulenti piuttosto che gangster sempre più forte e sempre più potente.   Va denunciato il carattere capitalistico della crisi quale causa effettuale sia delle rivolte arabe che dei tentativi di aggressione per superare la crisi e allontanare il crollo. Se continuiamo a fare l’analisi del dna dei rivoltosi in qualsiasi angolo del pianeta, scopriremo sempre che ….possono consapevolmente o meno essere al servizio dei briganti occidentali, ma non avremmo fatto un milionesimo di millimetro in avanti noi e non lo avremo fatto fare neanche a quelli che da quelle aree verrebbero spinti a porci l’orecchio. Sia detto fuori dai denti: si tratta di lotte e ribellioni sconclusionate, disomogenee, disordinate, interclassiste, e cosi via. E’ il prezzo da pagare di una più generale disgregazione annunciata. 
Quanto allo schieramento, siamo seri e innanzitutto onesti: che senso ha spaccare il capello in quattro sulle formazioni politiche espressioni di quelle rivolte? Che senso ha continuare a dire “si dovrebbe fare così o si dovrebbe fare cosà”. Chi lo dovrebbe fare? Loro, quelli che stanno a decine di migliaia di km da noi, ed allora spieghiamo ai nostri militanti le loro difficoltà, le difficoltà di masse che pressate dalla crisi, dalla miseria e dalla fame, dalla disperazione, tentano di ribellarsi e possono – per i rapporti di forza sfavorevoli – finire vittime di mascalzoni ed essere utilizzate contro la stessa causa per la quale si sono rivoltate. Così va posta la questione.

Michele Castaldo ottobre 2012

 


 

[1] Friedrich Engels: Antiduhring Ed. Rinascita pag. 165/6

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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