Quando ho scritto Il caos capitalistico riflesso in Ucraina, pubblicato il 3 marzo 2022, ho accennato a una serie di questioni teoriche che sapevo essere presenti nel vasto panorama della sinistra e in modo particolare in quel pulviscolo che si suole definire di estrema sinistra e che comprende un ventaglio di posizioni che si richiamano ai grandi teorici e dirigenti politici che in nome del comunismo si sono battuti contro il capitalismo sia dal punto di vista ideale che politico.

   Di questioni teoriche, dicevo che hanno rappresentato e tuttora rappresentano una sorta di « cassetta degli attrezzi » dove ognuno va e prende quello che gli serve per utilizzarlo nel contesto determinato. In certi casi quel ventaglio di posizioni teoriche diviene un tessuto elastico circolare tenuto da un punto centrale fisso, una specie di pilastro ideale, e che è possibile tirare da ogni lato secondo la posizione politica o tattica che si vuole affermare per la soluzione del problema del presente.

   È del tutto evidente che in questo modo ogni gruppo politico che si forma per pulsioni sociali si relaziona ad esse attraverso la mediazione degli elementi teorici. Si scatena così una vera e propria “competizione interpretativa” di come usare la cassetta degli attrezzi, ovvero di quale arnese prendere per contribuire a risolvere una questione sociale di qualsiasi tipo. In questo modo si costruiscono modelli ideali stabili per applicarli alla realtà concreta, che però è dinamica, e dunque si finisce il più delle volte per arenarsi in futili ed inutili discussioni. Si tratta per lo più di piccole sette che poi subiscono la scissione per gruppi di atomi fino a divenire addirittura singoli atomi che brancolano e spesso vengono definiti « cani sciolti », ovvero singoli personaggi scoraggiati che rifluiscono verso gli interessi della famiglia, del lavoro, di un affetto o di qualche attrattiva artistica e ritrovano equilibro e motivazioni per vivere, quando va bene; altrimenti si passa armi e bagagli al nemico di classe e chi si è visto si è visto. In Italia ci sono molti esempi di sessantottini e settantasettini approdati poi nelle file della destra liberale con ruoli, in qualche caso, anche di primo piano.

   In qualche mio scritto precedente ho messo in luce come certe posizioni teorico-politiche, pur agendo in buona fede e dunque con la volontà di apportare un serio e concreto contributo alla causa di oppressi e sfruttati, finiscono inevitabilmente in un settarismo estremo nei confronti dei più prossimi, ma si tratta comunque di una vera e propria guerra di posizione di cui la stragrande realtà sociale non s’avvede, e dunque mentre la realtà dei fatti scorre lungo l’alveo del fiume, gruppi di “comunisti estremisti” discutono come deviarlo.

   Nel precedente scritto, sull’Ucraina, accennavo a due questioni fondamentali ovvero quella dell’ « Autodeterminazione delle nazioni »  e quella dell’ « Autonomia di classe  », posizioni teorico-politiche a lungo dibattute da tutte le formazioni politiche di sinistra; ma la prima è stata e tuttora viene impugnata dalla grande “cultura liberale”.

   Dal momento che da sponde opposte – l’ideologia comunista e la “cultura liberale” -viene difeso lo stesso principio, corre la necessità di cosa intendono le due sponde rispetto allo stesso problema. Diversamente quella che riguarda « l’Autonomia di classe » quale totem teorico e politico dell’ideologia comunista.

   Ci troviamo ad affrontare la questione in termini concreti oggi per quello che sta accadendo in Ucraina, nazione staccatasi dall’Urss dopo l’’89 del secolo scorso e oggi sotto assedio della Russia mentre le potenze occidentali ne rivendicano la piena libertà e « l’Autodeterminazione  ».

   Dal momento che il mondo è fatto di relazioni non può esistere in assoluto una « Autodeterminazione », perché ogni atto è determinato da più fattori interni ed esterni, dunque vanno esaminati i fattori che determinano un atto sia interno che esterno per stabilire in qualche modo la causa di un problema. Posta la questione in questi termini il fattore preponderante che si delinea tra due forze perché una possa avere ascendenza sull’altra è  forza e potenza dell’una rispetto all’altra. E per essere chiaro e farmi capire dico che l’insieme dell’Urss non poteva essere soggiogato dall’insieme dell’Occidente, mentre una nazione come l’Ucraina può essere soggiogata dall’Occidente così come poteva essere soggiogata dall’Urss. Dunque in questione non c’è « l’Autodeterminazione » dell’Ucraina in astratto, ma in che modo sfruttarla nella sua autodeterminazione.

   Al collasso dell’Urss e di una economia stagnante faceva riscontro una crescita del modo di produzione capitalistico in Occidente, perciò era del tutto naturale che l’Ucraina potesse essere attratta più dal versante in crescita che dal versante stagnante verso una propria “autodeterminazione”.

   Ora, lo studio della causa delle cose è lo strumento fondamentale per comprendere in che modo si è determinato un fatto. Le cause non sono teleologiche, non sono già scritte come destino dettato dal padreterno, ma si intrecciamo nel mondo caotico atomistico del modo di produzione capitalistico e per questa ragione hegelianamente si possono capire solo dopo. Nessuno poteva pensare cosa sarebbe successo a distanza di 30 anni dall’implosione dell’Urss, tanto meno il popolo ucraino e il suo attuale presidente, Zelensky, che è passato dal fare l’attore comico a dirigere un paese oggi attaccato dalla Russia. La storia si racconta sempre dopo e sono sempre i vincitori a scriverla. Evitiamo accuratamente il paragone tra il prima e il dopo perché è un esercizio privo di senso, perché mai la stessa quantità e qualità di acqua scorre nello stesso fiume. Non è possibile perciò  misurare la tenuta dei suoi argini e il suo utilizzo se solo per irrigazione o anche per dissetare animali e umani.

Qualche passo indietro

   Nel 1905 - prendano nota certi cosiddetti estremisti di sinistra - scoppiò quella che è passata alla storia come « La domenica di sangue », ovvero di un corteo di operai che si recava sotto residenza dello zar a san Pietroburgo per consegnare una supplica allo zar. Si trattava di una invocazione affinché intervenisse nei confronti degli industriali occidentali che li sfruttavano come bestie con paghe bassissime e privati di ogni diritto. La polizia intervenne e fece un massacro perché sparò ad altezza d’uomo nel mucchio e i morti non furono mai contati, ma ma di sicuro a centinaia. Insomma una vera strage. Gli storici, fra cui il professor Ettore Cinnella, indicano nello zar il responsabile di quell’eccidio e quella rivoluzione come  « 1905 La vera rivoluzione russa ».

   Ora da un punto di vista formale è del tutto evidente che le responsabilità cadessero sullo zar, e tutti gli storici sparano sul bersaglio facile. Un modo “nobile” per nascondere quello che invece era, da un punto di vista della storia del modo di produzione, il vero responsabile, cioè quell’Occidente che in pieno sviluppo e crescita esponenziale dell’accumulazione capitalistica aveva investito ingenti capitali in Russia utilizzando la riforma agraria che aveva liberato i mugichi dalla servitù della gleba. Ricordiamo solo en passant che essere « servo della gleba » significava essere di proprietà del pomesciki, cioè dell’aristocratico titolare del fondo. La riforma agraria del 1861 liberava i mugichi per poterli impiegare nell’industria, che altrimenti non sarebbe stata possibile.

   Era più libero prima o dopo il povero nullatenente? Domanda oziosa, come detto sopra, era schiavo prima e diventa di nuova schiavitù dopo perché è diversa l’acqua che scorre nel fiume storico capitalistico. Allo stesso modo è schiavo? Certamente no, ma non apparteniamo a quella categoria di liberisti alla Fulvio Giuliani e Davide Giacalone che in questi giorni gridano « Forza Occidente! Non si cede! » proprio in virtù della e sulla libertà della nuova schiavitù come “fine della storia”.

   È chiaro che di fronte a un fatto come quello della « Domenica di sangue », un qualsiasi cittadino è portato a condannare la polizia zarista e lo zar. Ma mentre quel cittadino non conosce le dinamiche della storia di un movimento impersonale come il modo di produzione capitalistico, certi storici lo avrebbero potuto e dovuto sapere e chiarirlo alle generazioni successive. Non lo hanno fatto, e ci può stare, perché la storia la scrivono i vincitori, ma certi personaggi che si definiscono comunisti dovrebbero conoscere quelle dinamiche; se non le conoscono sono ciucci e farebbero bene a tacere e studiare piuttosto che dire stupidaggini. Se poi le sanno e le distorcono per utilizzarle da servi sciocchi e da utili idioti, cambia il valore degli addenti. Questo sia detto in generale.

Veniamo alla Ucraina e ai fatti di ieri con l’Urss, dopo Urss e di oggi.

   Non sono un economista e non amo le tabelle, preferisco ragionare sui fatti cercando di inquadrare il particolare nel generale e dal generale scendere nei particolari. Sicché stando ai fatti siamo tutti certi di una cosa: solo dopo che l’Ucraina è uscita dall’Urss si è verificato quello “stranissimo” fenomeno di decine di migliaia di donne ucraine che sono arrivate in Italia, attraverso ONG, la Chiesa cattolica e gruppi ebraici a fare le badanti agli anziani del nostro ceto medio dopo il disimpegno della Stato italiano per alcuni servizi essenziali come le residenze degli anziani. Insieme a tante donne anche tantissimi uomini impegnati poi nell’edilizia. Per lo Stato italiano e la nazione italiana una vera e propria cuccagna; per una parte del popolo ucraino umiliazioni e sacrifici.

   Il nostro ragionamento è semplice: se l’Ucraina dopo l’uscita dall’Urss ed essersi liberata dal “comunismo” si è dovuta nuovamente indebitare col FMI, e le banche di quel paese rapinarono le famiglie con la svalutazione selvaggia improvvisa buttandole sul lastrico e le costrinsero ad emigrare nel luccicante Occidente a fare i lavori più umili, la responsabilità non può essere addebitata alla Russia. E qui ripetiamo il concetto che non intendiamo fare un confronto tra il prima, quando l’Ucraina era nell’Urss e dopo, quando si è impoverita, costringendo centinaia di migliaia di persone a emigrare. Altrimenti detto: dietro l’impoverimento dell’Ucraina c’è il Fondo Monetario Internazionale e le Banche, ovvero le grinfie della finanza occidentale.

   A seguito di quell’indebitamento l’Ucraina è risultata più ricattabile dalle potenze occidentali in crisi, prima fra tutte lo Stato del Nord America che si ritiene padrone della Nato, alla quale hanno aderito gran parte dei paesi dell’ex Patto di Varsavia, il quale si è sciolto, mentre è rimasta in vita e si è sempre più estesa la Nato. Dunque a fronte di una potenza che è cresciuta, l’altra si è ridotta.

   L’Ucraina presa per il collo dalla crisi interna, dovuta all’indebitamento, non fa che chiedere di entrare nella NATO. In realtà è diventata il servo dominato dalla volontà del padrone, l’Occidente, che in grave crisi economica deve portare i suoi confini, costi quel che costi, a ridosso dei confini della Russia per poterla bombardare, renderla impotente, disintegrarla come potenza detentrice di materie prime e puntare a scendere a patti con la Cina, il pericolo numero uno per la potenza concorrenziale delle sue merci. Così stanno le cose e nonostante le montagne di bugie questa verità emerge continuamente, perché la forza della verità è come la tosse, non la si può del tutto e a lungo sopprimere. 

Internazionalismo proletario

   Siamo cosi arrivati al punto cruciale della questione comunista, ovvero del senso che vogliamo dare alla espressione Internazionalismo proletario. Si tratta di una tesi che scaturisce dalla parola d’ordine « Proletari di tutto il mondo unitevi! » del Manifesto del partito comunista di Marx-Engels del 1848. Ed essendo quella la fonte, da essa dobbiamo partire per spiegare il senso storico del: se, quando, dove, e come esso si dà.

    Capisco che affrontare uno dei capisaldi teorici del comunismo del Manifesto, suona quasi blasfemo, ma o si affrontano le questioni alla fonte o non si risolvono, men che meno a valle. Entriamo perciò nel merito e lo facciamo non in astratto ma per riferirci poi alla realtà attuale, allo scontro in atto in Ucraina e al dispiegarsi di posizioni da assumere.

   Come sempre a chiare lettere e senza nascondere nulla fra le righe (come amava dire Marx) l’espressione « Proletari di tutto il mondo unitevi! » vista da un punto di vista ideale è giusta. Molti filosofi però per poter giustificare alcune teorie sono diventati fisici, chimici, medici, matematici, ecc. ecc.  Marx – e dopo Engels – fanno la stessa cosa, partono da una idea: del  proletariato sfruttato che se si unifica in tutto il mondo abbatte la borghesia che detiene il potere capitalistico. Il buon Marx però non si ferma al Manifesto – ideale e filosofico – ma procede, arriva ai Grundrisse e al Capitale, e si accorge che il capitale è un processo storico « impersonale », non solo, ma è un insieme di rapporti che coinvolgono più classi e settori sociali, è anarchico ed è il punto di arrivo di un movimento storico derivato dallo « scambio ». Dunque non è un rapporto di volontà delle persone, e se non è un rapporto di volontà tra e per le classi vuol dire che la borghesia più che soggetto della storia è oggetto della storia e che le istituzioni che la tengono al “potere” derivano non dal potere formale ma dai rapporti di produzione.

   Se questo è vero per la classe borghese lo è a maggior ragione per la classe proletaria e per tutte le altre classi che il modo di produzione continuamente riproduce. Si tratta dunque di un movimento storico « monista » che si tiene finché tutto l’insieme si tiene anche se al suo interno le classi si modificano, restano i ruoli impersonali che il movimento produce. Dunque non esiste la possibilità che una classe possa rendersi autonoma, nessuna di esse, perché tutte rivestono ruoli impersonali.

   Perché allora il proletariato di tutto il mondo dovrebbe unirsi? In base a quale legge? La legge della volontà? Ma da che cosa è dettata la volontà? Dalla presa di coscienza di essere sfruttato da un altro suo simile? Via non ci prendiamo in giro, cari compagni, affrontiamo di petto la cosa dicendo che l’idea non produce forza, e non producendo forza non produce valore, dunque non costituisce un fattore determinante.

   Stante così le cose, cioè che il proletariato non si unifica intorno a una idea, cerchiamo di capire « se, quando, dove e come,  ». E l’unico modo per cominciare ad avvicinarci al problema è studiare il suo comportamento negli ultimi 200 anni sfrontando di tante sciocchezze scritte per la volontà dei comunisti pur di giustificare una tesi ideale astratta. 

   La parola d’ordine dei gruppi che si definiscono internazionalisti è  « Il nemico è in casa nostra » che declamata in un paese colonialista e imperialista ha un certo valore, ma in Afghanistan avrebbe avuto un valore un “poco” diverso, in Iraq altrettanto, in tutto il Medio Oriente pure, in Sud America stesso dicasi. Dunque se l’espressione « il nemico è in casa nostra » non ha lo stesso valore ovunque e sempre,  questo vuol dire che quelli che si definiscono internazionalisti sono chiamati perlomeno a chiarire il senso che danno a quel concetto. E se quel concetto volesse significare che in tutto il mondo ci sono i padroni e gli operai e perciò per il proletariato il suo nemico è il suo padrone in un paese oppresso dall’imperialismo, siamo alla scemenza decantata come purezza teorica. Provare a chiedere a un iracheno scampato ai bombardamenti del 1991 in Iraq se il suo nemico era Saddam Hussein.

   Stabilito perciò che quel concetto non è applicabile ovunque e sempre, cerchiamo di capire dove e in che modo può essere applicato. In Italia, in Europa, negli Usa, cioè in quell’Occidente riconosciuto come forza sociale, politica, militare, culturale e religiosa che partita dall’Europa ha dominato per circa 500 anni gran parte del mondo e che nel suo percorso ha prodotto razzismo, oppressione, sfruttamento e per ultimo due guerre mondiali sempre nel tentativo di dominare il mondo? E oggi proprio quella straordinaria potenza storica è in crisi per le stesse leggi che l’hanno resa potente.

   A questo punto la domanda è: bisogna aiutarla a risollevarsi o affossarla per evitare che continui a produrre disastri? Non giriamo intorno al problema: questa è la questione e su questo si devono pronunciare tutti, compresi gli internazionalisti.

   Posta in termini più schietti vuol dire che c’è un aggressore storico in continuum che ha accerchiato la Russia e si prepara a sferrarle il colpo finale per disintegrarla, mettere le mani sulle sue ricchezze per sopravvivere come potenza/e. A questa azione continua e costante la Russia ha sferrato un’azione di difesa con l’unico strumento che le hanno lasciato: la guerra nei confronti di un paese un tempo amico e oggi soggiogato dall’Occidente.

   Ci impressionano i morti e i feriti? È la guerra e certi internazionalisti farebbero bene a rileggere o leggere la storia, capire sempre la causa delle cose piuttosto che andare a infoltire le file già fin troppo folte dei servi degli occidentali.

La posta in palio  

   Siamo perciò più precisi: che vuol dire oggi nella situazione concreta in Ucraina declamare lo slogan « il nemico è in casa nostra » e cosa vuol dire negli Usa, in Europa, in Russia e in Ucraina? E perché mai il proletariato russo dovrebbe lottare in Russia contro la Russia? Per indebolire la Russia, far ringalluzzire il governo Zelensky, dare mano libera alla Nato e portarsela ai confini. Giusto?  

   Mentre c’è un popolo, uno Stato, una nazione soggiogata dagli occidentali, con a capo un ebreo che si sta prestando a un gioco infame, e questo che andrebbe difeso? Ma a che gioco giocano certi internazionalisti, a quello della Cisl, de La 7, del Corriere della sera, de La ragion, de La Stampa e di tutto quel baraccone propagandistico che invita ad armare il popolo ucraino, come scrive Paolo Mieli, e mandarlo al massacro. Questo vuol dire sostenere l’Ucraina oggi contro la Russia. W allora, cari sindacalisti rivoluzionari, Non facciamo le mammolette, che vuol dire « Chiediamo la cessazione immediata della guerra della Russia all’Ucraina  »? E perché mai proprio in Ucraina, proprio in questa fase non dovrebbe valere la parola d’ordine proprio per gli ucraini « il nemico è in casa nostra »? Perché da internazionalisti veri in Occidente noi lo diciamo, e non lo dovrebbero sostenere gli ucraini? Perciò, bando alle chiacchiere in libertà.

   Partendo dal presupposto che il proletariato è assente come classe autonoma, indipendente e quant’altro, facciamocene una ragione e cerchiamo di restringere il campo e di esaminare le opzioni possibili per capire che senso dare da un punto di vista politico a quella espressione di « Internazionalismo proletario ».

·       1) Opzione: Zelensky chiama alla resistenza contro l’invasione russa, appoggiato e sostenuto in vario modo da tutte le potenze occidentali. Tutti quelli che chiedono di inviare armi e sostenere la resistenza ucraina diretta da Zelensky non fanno che perpetuare il massacro del popolo ucraino per conto degli Occidentali e della Nato. Una posizione che se portata alle estreme conseguenze potrebbe provocare il terzo conflitto mondiale.

·       2) Opzione: Fuga dalla Ucraina, è una posizione che assumono quelli che possono, cioè un ceto medio che in qualche modo sa dove andare; e masse di poveri disgraziati in balia della servitù dei nostri vecchi europei, oppure nelle nostre industrie a quattro soldi e umiliati.

·       3) Opzione: Resa incondizionata, non vogliamo combattere per conto degli occidentali e della Nato.  Molto difficile da pronunciarla, me ne rendo conto, ma è quella leninista, di chi ha veramente a cuore la pace e non la guerra.  Lotta contro il governo che si è reso complice dei disegni dell’Occidente contro la Russia. Un segnale, questo sì, al proletariato russo e di tutto il mondo: ci rifiutiamo di essere massacrati per difendere l’Occidente e le sue mire espansionistiche attraverso la Nato.

·       4) Opzione: Campagna politica in Occidente contro il nemico in casa nostra che ha utilizzato il popolo ucraino contro la Russia per risolvere una crisi che lo sta portando al collasso.

·       5) Fratellanza col popolo ucraino nella resa rivoluzionaria e nella cacciata del governo che sostiene l’Occidente.

   Quanto alla Rivoluzione russa che si svolse in due fasi: a) la prima fase in marzo (febbraio) con grandiose mobilitazioni contro la guerra da parte delle donne e dei lavoratori tessili ai quali si accodarono i lavoratori metallurgici, siderurgici e meccanici; misero in fuga lo zar e fu nominato il governo provvisorio Kerensky; b) mentre nella seconda fase, che durò dall’estate fino a novembre (ottobre), i contadini scappavano dal fronte per occupare le terre, sconfissero il governo Kerensky che traccheggiava sulla guerra e sulla necessità di indire un’Assemblea Costituente per formare un nuovo governo che avrebbe dovuto assegnare la terra ai contadini.

   A rivoluzione avvenuta Lenin volle la pace a tutti i costi, una pace senza se e senza ma, che costò ai firmatari russi la Polonia Orientale, la Lituania, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasia. Complessivamente strappando alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione), privandola del 75% della produzione del carbone e del ferro, del 32% della produzione agricola e di circa 5.000 fabbriche, cedendo parte del territorio, mentre Trocky, menscevico fino ad agosto del 1917, era contrario. Certi epigoni del “grande” Leone farebbero bene a tacere. 

   Noi non stiamo con l’”eroismo” del popolo ucraino al servizio delle potenze occidentali! Per farle uscire dalla crisi e continuare nella barbarie.     

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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