Israele a Gaza, pro doma sua e per conto di tutto l’Occidente, proprio dai potentati di questo, in primis gli Usa, si tira fuori dal cilindro la vecchia proposta di due popoli due Stati, ventilata sempre ma realizzata mai. Inutile dire che dietro tale cosiddetta proposta si è sempre nascosta l’ipocrisia tutta occidentale tendente a mascherare le ragioni vere della nascita dello Stato di Israele. Perché se così non fosse stato in 75 anni si sarebbe trovato il modo di dare una parvenza statuale ai palestinesi piuttosto che rinchiuderli in una prigione a cielo aperto ricattandoli e reprimendoli continuamente per tenerli sotto controllo.

  Su quello che sarà il “dopo” si vedrà, intanto

si sta procedendo a un vero e proprio genocidio del popolo palestinese e la distruzione di gran parte delle abitazioni in terra di Gaza. Contemporaneamente si procede nella colonizzazione della Cisgiordania espellendo i palestinesi. Dunque si sta procedendo in modo da fare terra bruciata di uomini e cose tali da determinare un vero e proprio stato, si, ma uno stato d’animo dei sopravvissuti. Insomma siamo di fronte al tentativo di una soluzione finale di una aspirazione di un popolo ma senza affermarlo, o per meglio ancora dire, in nome della distruzione di Hamas. Questi sono i fatti sui quali si tenta di costruire poi una propaganda tanto falsa quanto infame. Pertanto non basterebbe nessun tipo di propaganda alternativa per smontare quello che è a tutti chiaro, anche perché gli uomini si schierano in base a quello che per necessità sono spinti a credere.

  In una situazione del genere chi si sforza di dimostrare se Hamas rappresenti o meno, in parte o in tutto, il popolo palestinese perde tempo, perché chi ha deciso che Hamas va distrutto come entità politica in nome della difesa dei valori democratici dello Stato di Israele e di tutto l’Occidente, lo sta facendo per annientare le ragioni di una popolazione come quella palestinese anche perché si rivede in Hamas. La questione si complica, e allora si tratta di capire: a)  quali sono le ragioni vere che spingono lo Stato di Israele verso la soluzione finale dei palestinesi in nome della distruzione di Hamas; b) in nome di cosa l’Occidente cerca di frenare il governo Netanyahu verso questa soluzione; c) perché nonostante gli inviti alla cautela e a non commettere « il nostro stesso errore dopo l’11 settembre », come ipocritamente recita Biden, il personaggio Netanyahu si mostra restivo ad accogliere i suggerimenti che provengono dagli alleati e in modo particolare quello maggiore e più influente come gli Usa.

  Nel mio scritto precedente « Stato di Israele, niente è eterno » ho cercato di motivare le ragioni che spingono Netanyahu verso l’attuale carneficina, ovvero che lo Stato nazionale di Israele si trova nella condizione di dover fare un salto verso una Giudea teocratica quale punto di riferimento finanziario per l’Occidente contro i paesi arabi e islamici confinanti detentori di materie prime. Ma per i commentatori di parte occidentale tutto questo non conta perché tutto deve vertere sul politicismo e sul terrorismo – islamico – se riferito ai palestinesi.

  Se volessimo usare lo stesso metodo della propaganda occidentalista per gli ebrei e lo Stato di Israele dovremmo dire che Netanyahu non rappresenta gli ebrei, o, peggio ancora, che lo Stato di Israele non rappresenta gli ebrei. Ma si tratterebbe di un esercizio privo di senso. La storia è mossa da forze impersonali che permeano gli uomini. Pertanto Netanyahu può essere odiosamente antipatico quanto si vuole, e lo è, ma non rappresenta se stesso. È questo il vero punto in questione.   Insomma, detto in parole povere, se è vero che il personaggio appare come servo, e lo è, ma gioca anche un ruolo in proprio e proprio per tale ruolo non può accettare tutte le condizioni che il padrone vorrebbe  imporgli o “consigliare”. Pertanto i commentatori che focalizzanole loro critiche, o la loro rabbia” democratica sul personaggiooscurano o rimuovono del tutto il vero artefice che muove i fili, ovvero l’insieme dell’Occidente in crisi e gli Usa perfettamente personificato nel decrepito Biden.  

  Facciamo un esempio per rendere chiara l’idea citando un autorevolissimo uomo di cultura lontano anni luce dal comunismo, quel Raniero La Valle che scrive nella Newsletter n. 136 del 25 ottobre 2023, a proposito dell’Identità dello Stato di Israele:

« […] nelle ricostruzioni dei 75 anni del conflitto israelo-palestinese, nessuno, neanche Guterres, ha ricordato il 2018, l’anno in cui, il 19 luglio, lo Stato di Israele cambiò natura, e da Stato democratico, come era nel disegno del sionismo, è diventato per legge costituzionale uno “Stato Nazione del popolo ebraico”. Ciò spiega tutto, nel senso che se il principio fondativo che voleva congiungere democrazia ed ebraismo ammetteva l’esistenza dell’ “Altro”,  fino a permettere il sogno dei “due popoli in due Stati”, il trapasso allo Stato Nazione del popolo ebreo riservava solo a questo il diritto all’autodeterminazione, cioè i diritti politici, e rendeva incompatibile l’esistenza di un secondo popolo; di qui i 700.000 coloni irradiati in 279 insediamenti oggi presenti nel Territori occupati abitati da 3 milioni di palestinesi » . 

. Una notizia che prendiamo in carico quale effetto causale ulteriore di una accelerazione piuttosto che di una svolta storica diun moto che in una intera area come quella del Medio Oriente si sta destabilizzando, di cui il 7 ottobre, ovvero l’azione di Hamas, rappresenta solo un riflesso agente.

  Nel 1936, 1942, 1948 un Einstein poteva dire che il sionismo e la fondazione di Israele fosse una medicina peggiore del male che voleva curare: l’antisemitismo. Quindi che fosse anche contro gli Ebrei. Possiamo continuare questa fesseria dopo che 75 anni hanno determinato la definizione di ebreo che necessariamente è un buon ebreo, dunque un non antisemita solo se si riconosce e si riconosce – in Israele?

  La materialità rilasciata da un modo di produzione infrange la “tradizione” che sopravvive solo sporadicamente. È fin dall’originario progetto dello Stato di Israele la soluzione finale sui Palestinesi, è sempre esistita e sempre questa è stata la tendenza di marcia. Solo che la scarsità della popolazione ebraica e la crescita mondiale della accumulazione per necessità e per possibilità gli hanno consentito la fase temporanea: coesistenza nella cittadinanza degli arabo-israeliani e il miraggio conflittualmente consentito di una futura nazione palestinese. Poi è arrivata la crisi e si è raschiato anche il fondo dalle sacche di immigrazioni ebraiche, le quali, come gli ebrei Etiopi, hanno portato nella crisi maggiore disunione, ecc. Tant’è che Einstein scrisse che quello che farà Israele nel futuro è facilmente immaginabile guardando a cosa era appena stato capace di fare il sionismo e le truppe dell’Irgun a Deir Yassin nel 1948.

    Ora Raniero La Valle scambia l’effetto per la causa. La causa è l’accelerazione della crisi generale del modo di produzione, l’effetto obbligato è la decisione della modifica formale dello Stato.  Proprio perché non crediamo alla improvvisa follia degli individui ma cerchiamo nelle cause delle cose i fenomeni che gli uomini esprimono, vogliamo chiederci: cosa spinse nel 2018 il governo israeliano con una maggioranza risicata – 62 contro 55 – a una decisione destinata a modificare solo formalmente la storia dello Stato di Israele e il suo rapporto non solo con i palestinesi o gli arabi, ma con gli stessi ebrei?  È questa la domanda alla quale siamo chiamati a rispondere piuttosto che fare congetture su come si comporteranno Netanyahu, il governo e il popolo ebraico dopo lo sterminio operato nei confronti dei palestinesi a Gaza dopo il 7 ottobre e l’azione di Hamas. Il dato ormai è tratto.  

   Pertanto chi oggi spara ad alzo zero contro l’antidemocraticoNetanyahu rimuovendo in questo modo le cause, in realtà intende rimuovere le ragioni di una crisi che sta investendo l’Occidente e che si riversa in Israele quale punta dell’iceberg e obbliga, ecco il punto, l’”odiato” Netanyahu ad agire come sta agendo. Pertanto il nemico giurato del popolo palestinese che si appalesa formalmente oggi nel governo di destra o di estrema destra israeliano, in realtà è costituito dal mondo democratico occidentale che non sa come uscire dalla crisi e atterrito invia verso le coste prospicienti lo Stato ebraico portaerei e cannoniere in sua difesa proprio perché è costretto a perseguire la strada tracciata fin dall’inizio.  Pertanto il 19 luglio del 2018 era già scritto nell’ordine delle cose.

Il “paradosso” storico  

  La domanda che l’uomo della strada si pone è: ma perché i paesi arabi e islamici del Medio Oriente non si unificano e fanno fuori lo Stato di Israele che è poca cosa al loro confronto nonostante sia armato fino ai denti?

  Per rispondere a questa domanda sarebbe necessario un’intera biblioteca e probabilmente non riusciremmo comunque a convincere nessuno. Il perché è presto detto: perché tutti i popoli mediorientali, e non solo, sono inficiati in un modo di produzione interrelazionato. Pertanto i governi dei paesi del Medio Oriente sono condizionati dai rapporti di produzione e di concorrenza e privi perciò di forza politica ad agire in modo coerente. Si vuole una prova provata? Basta vedere l’atteggiamento della Turchia di Erdogan che sta nella Nato e sostiene – almeno a parole – Hamas e il popolo palestinese. Non molto diversamente stanno le cose per gli altri paesi. Sicché una parte degli islamici e degli arabi, possono anche manifestare contro lo Stato di Israele per il genocidio che sta compiendo nei confronti dei “fratelli” palestinesi, ma non è capace di sviluppare una forza unitaria tale da invadere Israele, disarmarla, estinguerla come Stato e come nazione e sviluppare un rapporto veramente fraterno di tutti i popoli mediorientali, compresi gli ebrei. Questo sarebbe da farsi, ma questo al momento non è possibile fare. Pertanto quelli che dicono che gli arabo-islamici sono 450 milioni contro appena dieci milioni di ebrei, espressi dallo Stato di Israele, omettono il dato storico, economico e politico che tiene divisi gli uni mentre si tenta di accrescere la tenuta politica e militare degli altri.

  Per dirla in parole chiare: dietro l’incongruenza e la divisione dei paesi arabi e islamici c’è un nemico invisibile che opera che è rappresentato dalle leggi impersonali del modo di produzione. Tali leggi tengono l’insieme di detto moto-modo finché tutto si regge e che solo a un certo punto per quelle stesse leggi non si reggerà più e saremo perciò di fronte all’implosione. È esattamente quello che sta accadendo e contro cui tenta di opporsi in modo feroce l’Occidente utilizzando la foglia di fico, nel caso specifico di Israele, o sull’altro versante, l’Ucraina nei confronti della Russia. Perché, se no, difendere l’Ucraina in quanto paese “aggredito” dal “dittatore” russo Putin e non i palestinesi martirizzati da 75 anni dallo Stato di Israele e oggi sottoposti al genocidio ad opera del “dittatore” Netanyahu?

  Sarà anche un servo il personaggio Netanyahu ma gioca anche in proprio per cui non può essere utilizzato solo come oggetto, vale allo stesso modo per Zelensky in Ucraina. Perché più avanza la crisi più si riducono i margini anche per i settori che puntano solo sulla finanza perché – per dirla con Rosa Luxemburg – « la moneta non figlia valore ».  

  Alla eventuale domanda fatta dai frettolosi: quanto manca perché si arrivi allo scoppio dell’implosione?  Non c’è una risposta precisa proprio perché la storia è fatta di tempi e temporali a volte anche improvvisi che smentiscono tanti “studiosi” di economia e della politica e sorprendono altrettanti rivoluzionari che fanno esercizi previsionali da osti della storia.

  E sempre per tentare di spiegare il paradosso storico, ci troviamo di fronte al fatto che in Occidente è cresciuta la critica valoriale al « capitalismo » inteso come modello di rapporti sociali sorto in Occidente, perciò occidentalistico, piuttosto che al modo di produzione capitalistico in quanto fattore di temporalità, fino al punto che anche autori importanti definiscono gli Usa ormai avviati verso il crack (Massimo Gaggi con un libro pubblicato nel 2020), mentre frazioni di arabi e islamici cercano di emularlo e i loro governi sono costretti a ricorrere anche a dure repressioni come è successo in Iran, per evitare che i costumi occidentali invadano e corrompano quel paese. E questo porta i propagandisti occidentali a sostenere la tesi ormai famosa che così suona: « si, il capitalismo fa schifo, ma ad esso non c’è alternativa ». Sia detto in tutta onestà che col permanere del moto “capitalistico” non c’è alternativa, men che meno ricorrendo alla riduzione di spazi di libertà individuale. Qual è però il paradosso dei paradossi? Il fatto che lo Stato di Israele – che per 75 anni si è vantato di essere l’unico Stato democratico nell’area del Medio Oriente – oggi è costretto a percorrere la strada di una Giudea teocratica di soli ebrei, come denuncia Ranierro La Valle. Non c’è da meravigliarsi, è la storia impersonale a dettare le leggi del moto.  Ora chi volesse seriamente tentare una analisi della fase senza inforcare gli occhiali del tifoso dovrebbe tentare di spiegare la natura di questo paradosso, piuttosto che blaterare a vuoto parlando di complottismo o negando i fatti. I fatti vanno esaminati, non rimossi per portare acqua al proprio mulino quando ormai non c’èpiù niente da macinare. Capisco che un ragionamento di questo tipo è molto indigesto, ma questo è.

Tutto è perduto dunque?

  A questo punto potremmo essere assaliti dallo sconforto perché se non risolvono un bel niente le mobilitazioni in gran parte del mondo di condanna dell’azione dello Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese - estremizzo per chiarire a fondo il problema –   vuol dire che non c’è soluzione di sorta, dunque ci dobbiamo rassegnare al peggio senza nessuna possibilità che i rapporti sociali possano modificarsi? Dunque aveva ragione Mark Fisher a sostenere che « è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo » che genera simili mostruosità?

  No, il militante che viene assalito dallo sconforto perché le sole mobilitazioni non sono sufficienti a modificare radicalmente la situazione sociale in Medio Oriente è chiamato a capire che queste mobilitazioni non sarebbero sorte senza la criminale azione dello Stato di Israele e che dietro e sotto di essa c’è un moto modo di produzione in crisi di prospettiva. Pertanto queste mobilitazioni, in assenza di una generale tracimazione sociale, possono anche rifluire e assisteremmo poi impotenti all’epilogo finale di un popolo come quello palestinese, ma che la crisi obbligherà tanto i paesi mediorientali quanto lo stesso Stato giudaico teocratico di Israele a uno scontro durissimo perché non c’è soluzione a questa crisi. Vale per il Medio Oriente come per l’Ucraina o per Taiwan o le due Coree. Insomma il moto sta già viaggiando verso l’implosione, si tratta di fare lo sforzo di volerla vedere piuttosto che girarsi dall’altra parte perché è triste lo scenario che ci si para davanti.

 

Albert Einstein e i due popoli Ebraici

Albert Einstein, oltre ad essere una delle menti più brillanti del secolo scorso, nella sua mortale persona è anche testimone di come le forze impersonali di un modo di produzione, risolsero la questione dell’oppressione del popolo Ebraico piegandola alle necessità della accumulazione di capitali e materie prime da parte dell’imperialismo occidentale nel suo insieme, trasformando l’antico popolo da vittima delle persecuzioni europee e cristiane a popolo carnefice di Arabi e Palestinesi.

Einstein nel 1936, ancora nella fase ascendente del nazismo in Germania, benché già attirato dalla causa sionista, non condivideva la prospettiva di uno Stato ebraico come risposta ai problemi dell’antisemitismo diffuso e imperante. Il 25 gennaio del 1936 scriveva alla Signora Leibowitz:

« È davvero un bene che noi ebrei abbiamo una casa in Palestina. Ci sono anche ebrei molto intelligenti, come il giudice Brandeis, che vedono un futuro ebraico solo in ununificazione degli ebrei allinterno di un territorio coeso. Io, da parte mia, non la penso così. Credo che lunicità della durata della comunità ebraica sia in gran parte basata sulla nostra dispersione geografica e sul fatto che, di conseguenza, non possediamo strumenti di potere che ci permettano di commettere grandi stupidaggini per fanatismo nazionale. Le persecuzioni non ci faranno mai perire. »

 

 

L’importante scienziato però si trovò trascinato da un moto ascendente, che nella necessità di mettere mano alle risorse del Medio Oriente iniziò a sgretolare la tradizione cui Einstein si riferiva e a imporre alla coscienza degli ebrei la necessità ad aver un proprio Stato. Vogliamo ricordare che per tutta la fine dell’800 e inizio XX secolo, nonostante i lauti finanziamenti della Gran Bretagna a quegli ebrei che emigravano per fuggire ai pogrom nell’Europa dell’Est, la maggior parte dell’immigrazione ebraica non volgeva verso la Palestina, ma in maggioranza verso l’America Latina, l’Australia, gli Stati Uniti e perfino verso l’Africa. Nel 1942 le cose iniziarono per forza oggettiva a mutare di fronte alla ferocia della persecuzione nazista. Nondimeno la questione continuava a presentare dubbi irrisolvibili nella testa del famoso fisico, in particolar modo quando la questione della “patria” ebraica entrava in rapporto con gli Arabi e Palestinesi che popolavano in grande maggioranza la Palestina. C’è da notare che il linguaggio di Einstein usa il termine “homeland” come luogo e non come Nazione e Stato Il 13 novembre del 1942 Einstein scriveva al Prof Tchernowiz:

 

« Sono sempre stato un sostenitore di una politica di onesta comprensione con gli arabi che si sforzasse di risolvere il problema, preferibilmente senza la guida inglese. È quindi chiaro che sono daccordo con il signor Magnes su questo punto, e che in generale ho guardato alla politica sionista con grande disagio quando si tratta di questo punto… ».

 

Nonostante tra Einstein e il rabbino Judah Leon Magnes vi fu negli anni ’20 una vivace polemica sul “governo” della Università Ebraica di Gerusalemme, sul punto specifico del rapporto tra arabi ed ebrei e lo scetticismo circo i fini del sionismo lo scienziato si trova d’accordo il rabbino pacifista, già famoso per essere un convinto anti-nazionalista, anti sionista, e con note simpatie nei confronti del movimento operario internazionale, nonché sostenitore pubblico della rivoluzione sovietica e della difesa di Sacco e Vanzetti quando ancora era residente negli Stati Uniti prima di trasferirsi a Gerusalemme nella seconda metà degli anni ‘20.

 

 

Con la fine della seconda guerra mondiale e la tragedia della shoah, piuttosto che segnare la piena adesione alla necessità della fondazione dello Stato ebraico, Einstein non poteva che prendere atto del volgere della storica questione ebraica sostenuta dal movimento sionista come strumento volto ad altri fini e tenta di mediare tra i due corni del problema, ossia della coesistenza della necessità degli Arabi e dei Palestinesi di liberarsi dal giogo del colonialismo britannico e di quella di fornire luogo sicuro per gli Ebrei sopravvissuti alla Shoah.

 

Il 21 gennaio 1946 Einstein scrive ancora a Henry J. Factorlamentandosi come il suo punto di vista circa gli eventi di Palestina venisse volutamente strumentalizzato per sostenere una causa non sua. Einstein si convince sempre più che questioni di “buon senso” negherebbero la prospettiva della fondazione di uno Stato Ebraico in Palestina e che la perseveranza in questa direzione non potrà che danneggiare la causa del popolo ebraico per come essa ancora appariva negli anni ’40 del secolo scorso nella testa del famoso scienziato.

 

« Sono stato testimone davanti alla Commissione dinchiesta anglo-americana sulla Palestina al solo scopo di agire a favore della nostra giusta causa. Ma è ovviamente impossibile evitare distorsioni da parte della stampa. Sono favorevole allo sviluppo della Palestina come patria ebraica, ma non come Stato separato. Mi sembra una questione di semplice buon senso: non possiamo chiedere che ci venga dato il dominio politico su una Palestina in cui due terzi della popolazione non sono ebrei. Quello che possiamo e dobbiamo chiedere è uno status binazionale garantito in Palestina con libera immigrazione. Se chiediamo di più, danneggiamo la nostra stessa causa ed è difficile per me comprendere che i nostri sionisti stiano assumendo una posizione così intransigente che può solo danneggiare la nostra causa. »

 

 

 

La storia nel suo procedere tumultuoso e la forza dell’accumulazione di mettere mano al Medio Oriente non poteva lasciare spazio ad alcuna mediazione. Successivamente al massacro nel villaggio Palestinese di Deir Yassin (9 aprile 1948) operato dalle milizie sioniste dell’Irgun, le confraternite sioniste degli Stati Uniti, nella persona di Shepard Rifkin (Segretario Generale degli Amici Americani dei Combattenti per la libertà di Israele) si rivolge all’influente scienziato Ebro affinché li sostenga nella raccolta di finanziamenti per armare le milizie combattenti in Palestina. Il 10 aprile Einstein gli risponde in 50 parole, segnando un taglio netto con quel moto impetuoso che volge alla affermazione della nazione di Israele in Palestina:

 

« Caro Signore,

 

Quando una vera e definitiva catastrofe dovesse abbattersi su di noi in Palestina, i primi responsabili sarebbero gli inglesi e i secondi le organizzazioni terroristiche costruite tra le nostre fila. Non sono disposto a vedere nessuno associato con queste persone false e criminali. »

 

 

Dopo due anni di pulizia etnica del popolo Palestinese realizzata con il sostegno finanziario e militare dell’intero Occidente, Einstein e altre poche voci isolate di intellettuali Ebrei (tra cui Hannah Arendt) scrivono una lettera aperta alla redazione del New York Times in occasione della vista di Begin negli Stati Unitie intitolata “un nuovo partito in Palestina”. Era il 2 dicembre 1948, e nelle prime righe della lettera si può leggere:

 

« Tra i fenomeni politici più inquietanti dei nostri tempi cè lemergere, nel neonato Stato di Israele, del Partito della Libertà(Tnuat Haherut), un partito politico molto simile per organizzazione, metodi, filosofia politica e appello sociale ai partiti nazista e fascista. Si è formato a partire dai membri e dai seguaci dellex Irgun Zvai Leumi, unorganizzazione terroristica, di destra e sciovinista in Palestina…»

 

E più avanti:

 

« Oggi parlano di libertà, democrazia e antimperialismo, mentre fino a poco tempo fa predicavano apertamente la dottrina dello Stato fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo vero carattere; dalle sue azioni passate possiamo giudicare cosa ci si può aspettare che faccia in futuro. ».

 

Il messaggio degli intellettuali Ebrei rivolto al popolo Ebraico fuori dalla Palestina rimane inascoltato e con esso, nonostante il loro impegno di volontà, la storia segna il completamento definitivo del trapasso per la maggioranza dell’antico popolo da vittima a popolo carnefice per conto dell’Occidente. La persona eccelsa di Einstein prima per motivi di buon senso e poi per ripulsione ha provato a piegare la storia del suo popolo verso la ragione attraverso la forza della volontà, ma la personalità illustre non poteva ostacolare il compimento di questo processo che avveniva sotto la spinta violenta e tumultuosa delle forze impersonali dell’accumulazione pro domo imperialista. Per quasi 75 anni queste lettere sono rimaste sotterrate sotto cumuli di polvere e nascoste chissà in quale archivio.

 

E’ curioso però che a partire dal 2019, questa fitta corrispondenza di Einstein sul sionismo, la Palestina, gli Arabi e la questione dello Stato di Israele sia improvvisamente riemersa. Segno che c’è un tempo e il tempo ha la sua temporalità finita. E oggi i sostenitori dello stato di Israele e della sua sopravvivenza ad ogni costo anche per mezzo della “soluzione finale” dei Palestinesi, giudicano Einstein come un “antisemita”.

 

 

Michele Castaldo, Alessio Galluppi – Roma, 2 novembre 2023

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Da Marx a Marx
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Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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