A proposito dell’articolo «La débâcle di Syriza non chiude la "questione greca"» dei compagni del Cuneo rosso.

   «Il nostro intento - scrivono i compagni - è quello di promuovere il confronto, finora deficitario, tra quanti ricercano una via d’uscita dalla profonda crisi ideologica, politica e organizzativa in cui versa il movimento proletario su scala europea e internazionale senza nulla concedere al riformismo e al nazionalismo».

 

   Raccogliamo perciò l’invito e lo facciamo a cuore aperto e senza diplomazia, nello spirito della franchezza che deve distinguere i comunisti.

   Si parte da un assunto perentorio: necessità di uscire da una crisi ideologica, politica e organizzativa in cui versa il movimento proletario su scala europea e internazionale. A nostro modo di vedere per uscire da una crisi di questa portata bisogna innanzitutto capire la natura di questa nostra crisi, perché la sola constatazione del fatto non spiega il fatto stesso, cioè  perché è accaduto.

   I compagni a p. 11 del loro articolo scrivono: «Senza alcuna pretesa di avere in tasca la soluzione giusta, il passepartout per aprire tutte le porte, poiché veniamo tutti da una sconfitta storica che ci ha segnati, […]». Calma compagni, di quale sconfitta storica state parlando? Purtroppo abbiamo consolidato nelle nostre menti dei luoghi comuni che di materialismo storico hanno ben poco, perché i comunisti non provengono da nessuna sconfitta storica di natura materiale, a meno che non si consideri l’avanzamento del modo di produzione capitalistico in Russia a seguito della rivoluzione del 1917 una possibilità per il socialismo o il comunismo; o che lo fossero le sparute pattuglie di disoccupati e operai che si espressero in maniera estremistica nei due anni successivi alla prima guerra mondiale in Germania; o ancora che il biennio “rosso” e la costituzione del Pcd’I in Italia o la costituzione della III Internazionale fossero un tentativo rivoluzionario contro il modo di produzione capitalistico mondiale in fase ascendente. Se è così, allora c’è stata una vera sconfitta, ma si è trattato della sconfitta di una tendenza teorico-politica ideologica. 

   La vera questione sta nel bilancio storico tutto ideologico che si fa di una fase ritenuta rivoluzionaria dal punto di vista proletario e che invece s’inscriveva tutta all’interno di un modo di produzione capitalistico ascendente: Comune di Parigi, Rivoluzione russa e lotte operaie in Germania e Italia comprese. Un conto era la richiesta del proletariato di ottenere quota parte dell’accumulazione, altra cosa era la tramutazione ideologica di potere politico e rivoluzione socialista o comunista o peggio ancora di dittatura proletaria rivendicata dai comunisti. La richiesta di quota parte dell’accumulazione non era una volontà di messa in discussione del modo di produzione.

   Pertanto – lo ripetiamo – la sconfitta è ideologica, cioè di chi propagandava e si organizzava per un’idea che non ha trovato conferma nella storia in una determinata fase del modo di produzione capitalistico. Se non si parte da questo si parte sempre con il piede sbagliato e i compagni del Cuneo  non forniscono la natura della “sconfitta storica”.

   A nostro modo di vedere non c’è stato uno scontro per il potere politico, cioè per il dominio di classe da parte del proletariato e non ci poteva essere. Dunque è sbagliato parlare di sconfitta storica riferita al proletariato. 

   Ciò detto quasi in premessa, passiamo a esaminare solo alcune questioni teoriche e politiche spinosissime che il “caso greco” pone e il modo di affrontarle da parte dei compagni del Cuneo.

   Scrivono i compagni: «Il ‘caso greco’ e la débâcle di Syriza hanno dimostrato una volta di più che l’illusione di poter uscire da questa crisi a mezzo di elezioni e con il rilancio di politiche riformistiche, produce solo nuovi disastri, con l'effetto di rafforzare i sentimenti di sfiducia e rassegnazione già così largamente presenti tra i lavoratori».

   La domanda sorge spontanea: era possibile diversamente? Perché è tutta qui la questione. Già Marx all’indomani della sconfitta dei comunardi cercò di elencare gli errori commessi piuttosto che inquadrare le vere cause, che consistevano in un sproporzionato rapporto di forza tra l’ardore dei cittadini parigini, artigiani e operai, e un modo di produzione che si espandeva anche in Francia. Non abbiamo nessuna esitazione a criticare Marx e dopo di lui Trockij e lo stesso Lenin che condivisero quella critica su “quel che si sarebbe dovuto fare e non si fece”.

   Scrivono ancora i compagni: «Discutere di questa débâcle può e deve servire a schizzare un percorso per la rinascita del movimento di classe (nel suo insieme) che non sia fondato sulle sabbie mobili».

   Schizzare un percorso? Chi lo deve schizzare un percorso che non sia fondato sulle sabbie mobili? Cari compagni, ma non vi pare di esagerare nel pretendere di schizzare un percorso per conto di altri, cioè del proletariato? In virtù di quali mezzi supremi saremmo chiamati a farlo? Il percorso è dato da fattori storicamente determinati che prescindono non solo dalla nostra volontà, in quanto ipotetici teorici del movimento rivoluzionario, ma dalla stessa volontà dei diretti interessati, cioè dei lavoratori in carne e ossa. Così facendo si è lontani dal materialismo storico se si pretende di «schizzare un percorso» e al tempo stesso, alcune righe successive, si afferma lo “stato di nullità politica della classe lavoratrice”. Saremmo dunque ancora una volta al “si dovrebbe fare”.

   Scrivono i compagni:

   «Nel 2011 i grandi poteri del capitale globale impedirono il referendum ventilato da Papandreu e  licenziarono in tronco questo bel campione per via extra-parlamentare. L'avrebbero voluto impedire anche questa volta, ma hanno fiutato il pericolo: un secondo divieto rischiava di svelare in modo troppo scoperto che la loro democrazia non è altro che una dittatura di classe, la dittatura della classe capitalistica».

   Ci permettiamo di osservare che la dittatura di classe dei capitalisti è l’effetto del modo di produzione capitalistico. I comunisti devono individuare innanzitutto la causa per combattere efficacemente l’effetto e nella causa è compresa la complementarietà della classe proletaria con tutti i suoi intrecci nel modo di produzione. E’ questa complementarietà che non vogliamo prendere in carico.

   Dicono i compagni: «Ma il bersaglio grosso delle decisioni della Troika […] sono i lavoratori della Grecia, autoctoni e immigrati»; ma questo è vero sempre, perché affermarlo con forza in questa circostanza? Probabilmente perché si legge nei fatti greci di questa fase anche una lotta a coltello fra le varie frazioni borghesi d’Europa per una crisi che non mostra vie di uscita.

   Veniamo però alla vera questione da dirimere: il soggetto rivoluzionario. Per le tendenze che si richiamano al marxismo non c’è alcun dubbio che è il proletariato che da classe in sé – per il capitale – diviene classe per sé e s’invola verso la sua rivoluzione. Da un punto di vista materialistico questa è una tesi sbagliata, perché la classe proletaria è complementare alla borghesia nel modo di produzione capitalistico. Il proletariato ha un ruolo oggettivo e alienato, tanto quanto la borghesia, seppure su posizioni diverse e confliggenti. Questo lo diciamo semplicemente perché non si vuole in alcun modo prendere in considerazione l’impersonalità del modo di produzione e la conseguente impersonalità tanto della borghesia quanto del proletariato che si combattono ma nella consapevolezza della loro complementarietà. Ipotizzare che il proletariato possa impossessarsi dei mezzi di produzione e abbattere la borghesia per abbattere il capitalismo è fuori da ogni logica materialistica. Continuando a rincorrere l’ipotesi del proletariato quale soggetto rivoluzionario si finisce come i compagni del Cuneo quando scrivono: «Non a caso, nei giorni precedenti il referendum, quando l'establishment europeo sparava contro i 'ribelli greci', ci sono state in giro per l'Europa circa 200 manifestazioni di solidarietà con loro (per quanto di piccole dimensioni, spesso più presidi che vere e proprie dimostrazioni)».

   A nostro modo di vedere non c’è stata una solidarietà di classe con il popolo e ancor meno con il proletariato greco. Se ne prendiamo atto, cerchiamo di capire le cause, che sono serie e che riguardano la comprensione del funzionamento del modo di produzione capitalistico. Se viceversa pensiamo che le piccole manifestazioni possano crescere e diventare un movimento rivoluzionario, magari intorno al nucleo centrale proletario, siamo fuori dalla storia o, per meglio dire, dal materialismo storico, perché i movimenti di classe nascono grandi per divenire poi piccoli nel loro rifluire; e noi  non possiamo invertire l’ordine fisico del movimento della materia sociale. Peggio ancora se pensiamo che dall’esterno si possano idealmente e teoricamente influenzare i movimenti di massa, come è opinione diffusa fra tutte le organizzazioni di estrema sinistra che si richiamano al marxismo e non solo.

   I compagni del Cuneo ad un certo punto del loro documento centrano la questione, quando scrivono:

«A comandare ai poteri forti europei, greci, transatlantici e globali […] un terzo memorandum più duro dei precedenti, non è la politica neo-liberista, è la crisi sistemica del capitalismo completamente irrisolta». Giustissimo, ma allora il soggetto della crisi greca non è la borghesia e la sua voracità, ma la crisi che la costringe a essere vorace. Tanto è vero che, continuano i compagni: «i capitalisti hanno bisogno anzitutto di una drastica svalorizzazione della forza-lavoro, di un impoverimento di massa sconosciuto da molti decenni».

   La domanda che ci poniamo è: come si sta comportando il proletariato di fronte alle necessità della crisi che spinge la borghesia ad agire in un certo modo? Noi diciamo: arretrando paurosamente e disordinatamente. Perché, come mai? Semplice la risposta: perché esso è classe complementare e la crisi le fa mancare il terreno sotto i piedi, perché in quanto classe è sorta dal modo di produzione capitalistico e la crisi di questo la mette in crisi come classe in sé e per sé, perché ha di fronte il baratro. 

   I compagni scrivono: «Le misure imposte ai proletari greci e a quelli dell'intera Europa, la catena infinita delle guerre scatenate direttamente o indirettamente alle popolazioni del mondo arabo-islamico dall'Occidente, la guerra agli emigrati-immigrati che impazza qui e nel mondo intero, i dissesti ecologici in serie, sono altrettanti prodotti 'spontanei', necessari della crisi storica più profonda che il sistema capitalistico abbia mai vissuto. Questa è la questione-chiave che sovrasta e determina le vicende greche (e non greche), e ne fa un capitolo dello scontro di classe globale in corso di acutizzazione tra capitale e lavoro. […] Questo scontro epocale, […] contrappone tra loro due prospettive storiche alternative inconciliabili: la prospettiva di un nuovo, devastante rilancio del capitalismo, e la prospettiva di una rinascita dalle proprie ceneri del movimento proletario mondiale e della rivoluzione proletari».

   Vorremmo invitare i compagni a essere più chiari e più espliciti, a non temere di usare qualche sostantivo che scotta e per cui temono di bruciarsi. Che vuol dire «una rinascita dalle proprie ceneri del movimento proletario mondiale»? Cosa ridurrebbe in cenere il modo di produzione capitalistico, se a questo i compagni si riferiscono? Perché questa timidezza e questa reticenza nei confronti di un sostantivo – il famoso crollo - temuto come il fuoco da un punto di vista teorico dalle correnti che si richiamano al marxismo? Così facendo alimentiamo la confusione fra i compagni di nuova generazione, indichiamo loro un soggetto da inseguire ed educare, quando questo arretra scompaginato proprio quando il modo di produzione va in crisi sistemica come scrivono gli stessi compagni.

   Diversamente va detto ai giovani compagni la verità materiale: il modo di produzione capitalistico non può essere abbattuto da una classe che in esso è parte complementare, seppure subordinata. Ferma restando la tesi di Marx sulla finitezza del modo di produzione capitalistico, riaffermiamo con lui che: venendo meno i fattori che lo fecero sorgere ne decreteranno la fine.  E’ esattamente il contenuto di quello che scrivono i compagni a p. 3: «si "decide" ciò che già è stato impersonalmente stabilito dalle immodificabili leggi di funzionamento del modo di produzione capitalistico». Si tratta “solo” di dare conseguenza logica, dal punto di vista materialistico, a quello che qui si afferma; altrimenti vuol ditre che lo si scrive senza crederci.

   A questo punto, delle due l’una: o il modo di produzione entra in crisi irreversibile per le sue stesse leggi o viene abbattuto dal proletariato. O dalle sue ceneri si organizza un movimento rivoluzionario di fatto, che chiamiamo proletario, e che deve proiettarsi a organizzare su basi diverse un nuovo modo di produzione e una nuova organizzazione sociale, o rincorriamo l’ipotesi tutta mitologica di un proletariato che abbatta la borghesia e instauri la sua dittatura.  E’ arrivato il momento in cui bisogna uscire dall’indeterminatezza! Marx era un uomo e come tale poteva sbagliarsi e si sbagliò, e il modo peggiore di difenderlo è sostenere a spada tratta una sua ipotesi poco materialistica.

   Definita la questione teorica sulla natura impersonale del modo di produzione, passiamo a esaminare il rapporto tra il proletariato e le sue organizzazioni, che i fatti della Grecia ci richiamano in questa fase.

   Scrivono i compagni del Cuneo: «E se a questo ci si vuole opporre davvero in Grecia e ovunque, c'è una sola arma: la lotta di classe organizzata, indipendente e dispiegata della classe dei lavoratori salariati ridestata a sé stessa. Esattamente l'arma a cui Tsipras e Syriza hanno rinunciato già da molto prima della loro andata al governo».

   Non amiamo nessun tipo di riformismo, ma riteniamo non materialistica l’impostazione che separa il movimento di massa dal riformismo politico organizzato in partito. E’ totalmente sbagliato indicare quel che deve fare il movimento di massa e che le sue organizzazioni attuali non sono in grado di fare, perché “hanno rinunciato già da molto prima a farlo”. Come a dire che il movimento di massa è più avanti delle loro stesse organizzazioni e viene da queste frenato. I compagni devono farci i conti con queste cose, non possiamo continuare all’infinito a recitare un simile credo, se poi gli stessi compagni nella stessa pagina, poche righe dopo scrivono: «Da materialisti ammettiamo, invece, che nelle condizioni date la sconfitta era, al momento, inevitabile». Non si può essere materialisti a righi alterni, in questo modo si fa un passo avanti, uno a destra, uno a sinistra e uno indietro e si rimane fermi al palo mentre il movimento della materia procede il suo corso ondulatorio e sussultorio, aggregando e disgregandosi continuamente.

   Tsipras e Syriza non hanno rinunciato, non avevano questo potere magico di libero arbitrio, ma sono l’esatta espressione delle difficoltà del movimento di massa greco, punto e basta. Dire che hanno rinunciato vuol dire colpevolizzarli per scelte che avrebbero potuto diversamente fare. Siamo all’astrattismo.

   I compagni insistono: «E la grave responsabilità politica di Tsipras e di Syriza è nell'avere concorso attivamente, e non poco, a scompaginare la resistenza di massa ai provvedimenti previsti dal terzo memorandum». Così facendo non siamo credibili, vien da chiedersi: com’è possibile che un gruppo politico come Syriza, nato come espressione di una volontà di massa, ad un certo punto si rivolti nel suo contrario e si attivi per scompaginare la resistenza dei movimento di massa che lo ha generato? Delle due l’una: o i proletari sono stati così imbecilli da non capire che chi si proponeva come loro difensore aveva le stimmate del truffatore e del traditore, oppure chi si è posto alla loro testa ad un certo punto è stato costretto da circostanze di un rapporto di forze avverse a fare dietro front. Noi optiamo per la seconda ipotesi, senza il minimo dubbio. Possono anche essere stati corrotti, ma questo non cambia di una virgola il nostro ragionamento perché lo avrebbero potuto fare solo in presenza di un movimento di massa debole e insicuro.

   Scrivono ancora i compagni: «Il problema è di strategia, non di tattica. La resa finale del 13 luglio è stata il risultato obbligato della linea politica 'riformista' di Syriza, che non ha mai messo seriamente in conto la possibilità di un vero e proprio scontro con i poteri del capitale globale» (la sottolineatura è nostra).

   Ma come possiamo pensare che un piccolo gruppo politico, sorto come un fungo dopo un acquazzone, di un piccolissimo paese nell’occhio del ciclone di una crisi generale del modo di produzione capitalistico possa mettere seriamente in conto la possibilità di un vero e proprio scontro con i poter del capitale globale? Come facciamo a essere credibili nei confronti di un giovane studente o di un giovane operaio che per puro caso si dovesse imbattere nei nostri scritti o in nostre conversazioni?

   E ancora i compagni insistono: «Tra il 2009 e il 2012 Syriza aveva cavalcato il movimento di massa contro i memorandum e si era gonfiata di credito e di voti grazie ad esso; ma un passo dopo l'altro già molto tempo prima della nascita del governo Tsipras, ha trasformato il suo originario rifiuto in blocco dei memorandum e dei diktat della Troika in una posizione favorevole al negoziato, e poi al negoziato a tutti i costi».  Ma non sarà per caso che il movimento di massa è rifluito proprio per la consapevolezza della posta in palio e della sproporzione della forza rispetto al nemico esterno e interno? Abbiamo completamente dimenticato la legge delle masse del minimo sforzo per il “massimo” risultato. Syriza e Tsipras hanno raccolto ancora il 35% di voti nell’ultima elezione del 20 settembre e gli oppositori di sinistra non sono neppure entrati in parlamento. Si dirà che ha votato soltanto il 50% degli aventi diritto, ma questa rafforza la nostra tesi sull’arretramento scompaginato e lo sconforto delle classi proletarie.

   I compagni insistono: «Contestualmente, essa ha operato per canalizzare le lotte dalle piazze e dai luoghi di lavoro, dove si costruiscono e si cambiano i reali rapporti di forza tra fronte del capitale e fronte delle classi lavoratrici, verso il piano elettorale, vedendo nella collera dei giovani e dei proletari una semplice arma di pressione per meglio negoziare con i creditori (e, nello stesso tempo, una energia da tenere sotto controllo). Ciò che va imputato a Tsipras e a Syriza è di aver depotenziato il conflitto di classe in Grecia. Un obiettivo chiaramente espresso nella formula congressuale “Siamo per la solidarietà, e non per la lotta”, e messo coerentemente in pratica nella sua seconda parte assai più che nella prima» (la sottolineatura è nostra).

  In questo si assegnano alle persone riunite in partito un ruolo taumaturgico, capace di muovere il movimento di massa a proprio piacimento. E’ un’impostazione legittima, ma non c’entra con il materialismo. Invitiamo però i compagni del Cuneo a essere coerenti e non contraddirsi continuamente quando ancora scrivono: «Non sosteniamo che il movimento anti-memorandum fosse pronto allo scontro frontale con la Troika e i capitalisti greci: sarebbe una infantile fiction. Sosteniamo che Tsipras/Syriza hanno contrastato l’allargamento, la radicalizzazione e l’unificazione del movimento di massa anti-memorandum, la sola forza in grado di contrastare l'attacco della Troika e delle forze borghesi interne». Che modo di ragionare è, se si ammette che il movimento di massa non era in grado di reggere uno scontro frontale, ma Tsiopras/Syriza hanno contrastato l’allargamento, la radicalizzazione e l’unificazione del movimento di massa? Francamente non riusciamo a intravedere un filo logico nel ragionamento dei compagni.

   Si arriva così a definire la questione: «Questa condotta e questa evoluzione di Syriza non è una sorpresa per noi, essendo inscritta nel suo dna ideologico e politico riformista» (nostra la sottolineatura).

   Dunque il riformismo non sarebbe un naturale prodotto del sentimento sociale fra le masse del modo di produzione capitalistico, ma sarebbe inscritto nel dna di forze esterne che lo profondono nelle masse. Liberissimi di pensarla in questo modo, ma cosa c’entra con il materialismo? Il povero Marx, correggendo Feuerbach, spiegò che la religione – una specie di riformismo –  è il modo di difendersi delle masse, che applicano la legge del minimo sforzo, dunque è un prodotto delle masse. Perché i compagni si ostinano a non voler capire?

La povera Rosa Luxemburg addirittura scriveva: «In tutti i parlamenti borghesi noi assistiamo da un momento all’altro alle più deliziose capriole dei “rappresentanti del popolo” che, improvvisamente animati da uno “spirito”, fanno sentire accenti del tutto inattesi; che da un momento all’altro le mummie più rinsecchite assumono un’aria giovanile e che i diversi piccoli Scheidmann talvolta trovano di colpo nel loro petto accenti rivoluzionari non appena si rumoreggia nelle fabbriche, nelle officine, nelle strade? »[1].

   Era uscita di testa l’aquila reale o i compagni si ostinano in un soggettivismo idealistico senza capo e senza coda? Noi stiamo con la prima ipotesi: movimento di massa impersonale capace di influenzare le persone e le personalità, di scomporre e ricomporre gruppi e partiti. Sotto gli occhi abbiamo la scomparsa del Pasok e la nascita di Syriza. In una prossima crisi avremo una nuova ondata di lotte di massa, lo sgretolamento di Syriza e la nascita di un nuovo partito. E’ il materialismo storico, né più né meno.

    I compagni del Cuneo ripetono una espressione di Trockij che non fa onore al materialismo e al marxismo: «Organizzatori di disfatte, costoro sono anche giustificatori di disfatte».

   Sul personaggio Trockij ci sarebbe molto da dire, ma non ci occupiamo dei personaggi e delle personalità; citiamo solo come esempio, fra le tante fughe idealistiche di un percorso opportunista, la pretesa d’instaurare la dittatura del proletariato in Cina che contava appena l’1% della popolazione operaia e dislocata per di più in due sole grandi città industriali.

   A questo punto sorge spontanea la domanda: se le masse sono un branco d’imbecilli che si fanno aggirare dai caporioni riformisti, perché pensiamo poi che debbano fare la rivoluzione comunista? C’è o no qualcosa che non va nei nostri ragionamenti, chiediamo ai compagni del Cuneo e non solo?

 

Michele Castaldo settembre 2015.

 

 



[1] R. Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, Vol. II, Editori Internazionali riuniti, Roma 2012, pp. 238-9.

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

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