Un certo Giorgio Amendola – che i militanti più anziani ricordano bene – negli anni sessanta amava dire che per capire lo stato d’animo delle classi lavoratrici in Italia bisognava puntare lo stereoscopio sul cuore di Torino, cioè della classe operaia del più importante centro industriale del paese, intorno alla Fiat dell’”Avvocato” (300.000 addetti, oltre l’indotto). Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti del Po, ma

per chi si richiama al comunismo bisogna partire da quell’affermazione per capire quello che sta accadendo in Italia e in Europa e in generale nel modo di produzione capitalistico. Ma come? - si potrebbero chiedere vecchi e giovani compagni – un risultato elettorale per le elezioni comunali avrebbe tutta questa importanza? Eh sì, cari compagni, se non si capiscono le cause di un fenomeno si brancola nel buio. E allora cerchiamo di capirci.

   Il proletariato europeo – quello che per oltre un secolo abbiamo chiamato classe operaia – è sotto attacco da parte della cosiddetta Troika che interpreta le ragioni dei capitalisti europei che, stretti nella morsa della crisi tra l’agguerrita concorrenza dell’Est europeo - Estremo Oriente e della potenza finanziaria e militare degli Usa, reagisce nell’unico modo possibile, torchiando sui due elementi fondamentali della produzione capitalistica: materie prime e forza lavoro. Il proletariato, essendo merce fra le merci, per dirla con Marx, cresce con l’accumulazione e si comprime con il suo rallentamento, entrando così nel vortice della concorrenza a ribasso. Se pertanto puntiamo lo stetoscopio sul cuore della classe operaia europea possiamo notare che i battiti sono prossimi allo zero, per un verso, e che nascono e si sviluppano formazioni politiche lontane dal nostro orizzonte, l’altro verso. A nell’ Est europeo e nell’estremo Oriente questo tipo di caduta è a cascata e i risultati se non sono proprio gli stessi ci manca poco. Dagli Usa i segnali sono ancor meno incoraggianti. Di fronte a questo dato di fatto che facciamo? Ci frustriamo, ci scoraggiamo, ci facciamo prendere dallo sconforto e organizziamo un’andata collettiva ad Ariccia per buttarci giù dal ponte?

   Il materialismo storico si caratterizza diversamente da altre impostazioni, perché affronta le questioni cercando di analizzare le cause materiali che generano i fenomeni. Allora si tratta di mettere un punto fermo: il proletariato, inteso come classe operaia, con la crisi del modo di produzione capitalistico, in modo particolare in Occidente, si decompone dai livelli raggiunti e non riesce a guardare oltre il modo di produzione che l’ha reso protagonista – come classe per sé – per un lungo tratto. Sicché ci si presenta un quadro sociale degli oppressi e degli sfruttati parcellizzato, molto più complicato rispetto al precedente ciclo.

   Questo processo marcia contemporaneamente nelle stesse file della borghesia e dunque aumentano, in modo esponenziale, settori che chiamiamo piccolo-borghesi impoveriti e privi di prospettiva che ancor meno del proletariato per le loro caratteristiche strutturali, non riescono a ricomporsi in un forte aggregato tale da costituire una forza d’urto da imporre le proprie necessità. Abbiamo così un quadro sociale complessivo in decomposizione, ma dialetticamente alla ricerca di nuove ricomposizioni con lo sguardo rivolto in avanti e all’indietro contemporaneamente.   Come comunisti abbiamo l’obbligo di guardare in casa nostra sia da un punto di vista teorico che da un punto di vista politico, e questo ci deve portare a dire che, se si è dimostrata straordinariamente giusta la tesi che il modo di produzione capitalistico è un moto finito, che cioè ad un  certo punto entra in crisi in quanto sistema, non si è dimostrata altrettanto giusta la tesi che la classe operaia potesse divenire da classe in sé a classe per sé e fare la rivoluzione anticapitalistica. Questo alla luce dei fatti storici, gli unici che stabiliscono torti e ragioni.

   Veniamo così a ragionare sul senso di movimenti sociali che apparentemente sono interclassisti, ibridi, apolitici e privi di prospettive come quelli che si sono sviluppati negli ultimi anni in Europa e negli Usa e che possiamo sintetizzare con le espressioni di contro Wall street e contro War street.

   In realtà la lotta di classe che si era caratterizzata come lavoro contro il capitale per strappare quote della propria attività nel processo di accumulazione è divenuta e sempre di più sta divenendo la lotta di un movimento generale contro l’insieme del modo di produzione in crisi che a sua volta produce sempre più Wall Street e War Street. L’errore in cui possiamo incorrere è quello di considerare i movimenti antisistema non tali solo perché non rivestono i canoni da noi definiti dell’anticapitalismo. Non è così. Se, da un lato, è vero che si tratta di movimenti che nascono e svaniscono nel volgere del breve periodo, è altrettanto vero, dall’altro lato, che ne nascono ancora e solo apparentemente con caratteristiche diverse, in realtà hanno sempre i connotati di reazione agli effetti devastanti del modo di produzione capitalistico, costretto a camminare sui morti.

   Da questi tratti generali, da tener sempre presenti nella discussione, passiamo ad esaminare alcune questioni particolari e fra queste le ultime elezioni del 5 e 19 giugno e “il terremoto” politico fra i partiti, da una parte, e i movimenti di opposizione fra cui quello di De Masgistris e il M5S in modo particolare.

   E’ del tutto evidente che il Matteo da Firenze non rappresenta sé stesso, se è stato preso e messo a fare il Presidente del Consiglio senza essere stato eletto. Ma – dicono i costituzionalisti, i giuristi, cioè quelli che le cose le sanno – la Costituzione lo consente! Ecco la tavola sacra, altro che i Dieci Comandamenti. 

   Tutti contro Renzi, partendo dall’interno del suo partito fino alle estremità sia di destra che di “sinistra”. Tutti contro la riforma costituzionale, ritenuta antidemocratica.

   La domanda è: perché? La risposta non la dobbiamo cercare nel politichese dei soloni costituzionalisti del Si e del No, ma nell’andamento economico in questa fase di crisi dell’Italia, dell’Europa e di tutto il sistema del modo di produzione capitalistico. Da più parti si dice – a giusta ragione – che Renzi rappresenta i poteri forti dell’economia, il che è vero. E i poteri forti in una fase di crisi cercano di scaricare sui poteri meno forti o deboli la propria crisi e avviene quel processo che proprio il Matteo da Firenze così chiarisce: in una fase come quella attuale i ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri. Viva la faccia. E lui chiama a raccolta il “popolo vivo” a camminare sui morti, come a dire: se non ce n’è per tutti, pazienza. Interpretando correttamente le necessità dei poteri forti, il Matteo si fa carico di organizzare uno Stato funzionante alla bisogna: più snello e più centralizzato, calpestando a destra e a sinistra, il che vuol dire: contro il ceto medio produttivo e commerciale, per un verso, e contro l’affastellamento delle classi proletarie sempre più precarizzate, per l’altro verso. Le nuove generazioni devono essere indirizzate verso questo quadro economico e sociale.

   Quelle necessità dei poteri forti, di cui Renzi si fa portatore, provocano reazioni nel tessuto sociale non più aggregato secondo i connotati della fase precedente: grande borghesia e ceto medio inquadrati in un grande partito con frattaglie a fare da comprimari, da una parte, e la famosa classe operaia in un altro grande partito, quel famoso Partito comunista di cui ormai si sono perse le tracce, dall’altra.  Dopo il tentativo berlusconiano di organizzare e centralizzare moderati e conservatori c’è una riproposizione dello stesso disegno con la differenza che Berlusconi tentò di farlo con i partiti di destra e centrodestra, i cosiddetti moderati, mentre a Renzi  è riuscita l’operazione classica nella storia della socialdemocrazia: impossessarsi di un partito di origine e tradizione operaia già predisposto al conservatorismo, riorganizzare lo Stato al servizio degli interessi “generali” della nazione, cioè  delle classi borghesi che si sforzano, nell’aumentata crisi, di “tenere alti i valori del popolo italiano”. Dunque maggiori poteri al centro economico e politico a danno della periferia. Strillino quanto e come vogliono - dice Renzi - i perdenti e gli esclusi, innalzino pure i loro forconi, facciano i loro referendum sulle trivelle, si oppongano pure all’Expo, l’Italia, quella dei più forti e dei potenti, va avanti.

   Al piano di Renzi si contrappongono sia le periferie economiche, che quelle territoriali (Puglia, Basilicata, la Sicilia, Napoli e la Campania), le quali cominciano a ritrovarsi in movimenti eterogenei, come i referendari, il Movimento Cinque Stelle e quello di De Magistris, oltre la frammentazione di raggruppamenti locali o insignificanti partitini di “estrema” sinistra. Proviamo a definire il profilo dei due movimenti maggiori nei quali si rispecchiano quanti vogliono sottrarsi alla morsa della centralizzazione economica e politica sia sul piano sociale che su quello territoriale e le loro prospettive.

 

A)    De Magistris: opposizione d’area alla centralizzazione.

   In un’intervista rilasciata alla redazione di Contropiano di Roma De Magistris enuclea il programma politico di un movimento di cui si fa portatore e dice: «Napoli ha rappresentato e vuole continuare a rappresentare un’alternativa alle politiche centraliste, autoritarie e liberiste dei governi che si sono succeduti in questi 5 anni e in particolare al governo Renzi. […] Napoli si candida a essere una delle città d’Europa contro le oligarchie italiane e europee che vogliono mantenere la ricchezza nelle mani di pochi a discapito di tutti gli altri costituiti dai popoli, dalle comunità, dalla gente e così via. […] Abbiamo governato senza soldi ma senza privatizzare i servizi pubblici. […] Vogliamo costruire un’alternativa con la partecipazione dal basso. Napoli, città del turismo, della cultura e del lavoro è contro il Jobs Act. Lotta contro il degrado e la criminalità organizzata. Siamo per il reddito di cittadinanza. Siamo per rivendicare l’orgoglio napoletano: riscatto di Napoli quale capitale del Mezzogiorno. Vogliamo organizzare una società orizzontale, autogovernarci, vogliamo un’autonomia tributaria e fiscale, abbassare le tasse, contro il governo centrale, vogliamo essere un punto di riferimento per il riscatto del Mezzogiorno. Chiediamo più fondi europei. Contro il sistema, unità dei popoli».

   Quello di De Magistris si presenta perciò come un movimento locale con aspirazioni autonomiste d’area, non assimilabile al leghismo settentrionale contro “Roma ladrona”. Quel leghismo nasceva come necessità di un’area ricca del paese contro il centralismo burocratico e pappone del potere romano, mentre il Movimento di De Magistris nasce dalla decomposizione di un’area proletaria metropolitana, e chiama a raccolta tutte le classi sane e democratiche di Napoli, della Campania e del sud Italia per una battaglia campale contro i poteri forti impersonati dal governo Renzi, dietro lo slogan “Non ci avrete ai vostri piedi! Non siamo in vendita! Dovete avere paura!”.

   Con tutto il rispetto per chi comunque si oppone - seppure soltanto a livello istituzionale - a un tentativo draconiano dei poteri forti, muoviamo la semplice obiezione: dopo la caduta del muro e l’implosione dei paesi dell’Est le classi borghesi di macro- e micro-nazionalismi pensarono bene di inerpicarsi verso una propria autonomia economica e politica e partecipare al banchetto che la fase dell’accumulazione offriva loro. Se De Magistris guarda alle esperienze come quelle jugoslave o del Kossovo albanese vuol dire che non ha capito che è cambiata la fase e una grande metropoli come Napoli, seppure una delle più belle città del mondo, non può costituirsi come isola felice basando sul turismo la propria economia e il proprio sviluppo. Si tratterebbe di un fenomeno effimero e temporaneo. Il mercato è mondializzato, compreso quello turistico, e la concorrenza non dà a nessuno la possibilità di sottrarsi. Come movimento napoletano e/o sudista non potrà candidarsi a movimento nazionale e men che meno europeo, visto che si chiedono più fondi, da un lato, e al tempo stesso si accarezza l’ipotesi di un’uscita dall’Europa.

 

B)    M5S: opposizione delle periferie economiche alla centralizzazione

   Diversa si presenta la proposta politica del Movimento 5 Stelle, perché innanzitutto ha la pretesa di definirsi movimento nazionale monolitico con una critica di fondo a tutti i partiti, accusandoli di aver rapinato e rovinato il ceto medio produttivo e privato di prospettiva le giovani generazioni, di «aver rovinato l’Italia», essi dicono. Questo movimento ritiene che tutti i disastri prodotti nel tessuto sociale siano da addebitare ai partiti politici che hanno governato negli ultimi 30 anni almeno, perché si sono caratterizzati come comitati d’affari a danno della cosa pubblica. Non a caso intendono concorrere a risanare l’economia dello Stato restituendo parte dei loro emolumenti per aiutare la piccola impresa a risollevarsi dalla crisi. Il M5S fa dell’onestà il suo cavallo di battaglia, recuperando una vecchia parola d’ordine di berlingueriana memoria: «noi siamo il partito dalle mani pulite». Tanto è vero che alle ultime elezioni politiche a piazza S. Giovanni a Roma rivendicarono la figura del defunto segretario del Pci.

   A dirigenti, militanti ed elettori di questo movimento volgiamo innanzitutto il plauso per il loro coraggio di schierarsi da soli contro tutti. Non solo, ma apprezziamo lo spirito di partito-movimento o di movimento-partito che si pone nei confronti del potere - dei partiti, attenzione bene! - con lo spirito schietto e chiaro: o noi o voi! Dunque noi contro di voi e voi contro di noi. Intendono governare da soli con un metodo diverso, quello dell’onestà, dando priorità ai beni comuni come sanità, scuola e servizi vari e istituendo un reddito di cittadinanza. Di proprio – come s’è detto – ci mettono una parte dei loro emolumenti. Come partito non fanno sconti e non temono di essere definiti antidemocratici, perché «chi non rispetta le regole che ci siamo dati è fuori dal movimento, punto», un centralismo democratico di leniniana memoria in epoca moderna. La loro non è una caratterizzazione ideologica di tipo novecentesco, ma una caratterizzazione morale e, se a tanti fa schifo, dai più è apprezzata: da destra, da centro e da sinistra. Non sono pochi, per esempio, gli artigiani e i piccoli imprenditori che fanno difficoltà a mandare avanti l’attività perché stretti nella morsa della concorrenza e con le banche a far da sanguisughe. Se per costoro il fattore morale dell’onestà è preponderante figurarsi per un operaio precario, un pensionato o un disoccupato. Se a sinistra del Pd c’è il vuoto, vuol dire che si è lasciata cadere anche quella bandiera morale. Pertanto, alcuni personaggi della sinistra – su quelli di destra ci rifiutiamo di ragionare – si tacitassero per alcuni anni perché non si può guadagnare la verginità dopo essere stati per anni intorno al trogolo impugnando la falce e martello per forchetta. Chi semina vento raccoglie tempesta.

   Dopo aver detto queste poche cose ci sentiamo di incoraggiare il M5S ad andare avanti sul terreno che si sono dati con qualche avvertenza: a) badate bene che il modo di produzione capitalistico è un movimento impersonale capace di triturare tutto e tutti, è una stranissima macchina da guerra. Già sono cominciate le pacche sulle spalle e i sorrisetti amichevoli; gli ammiccamenti puttaneschi col mostrarvi come volti puliti della democrazia italiana, l’invitarvi spesso ai talk, accrescendo la personalità di chi è più fotogenico, indicandovi come persone giovani e perbene, come onesti laureati dediti alla causa. Insomma si preparano – lor signori – all’eventualità di cambiar cavallo, se del caso; b) voi fate di vostro vanto il fatto di tenere a bada la ribellione crescente che in larghi settori popolari sfocerebbe in mobilitazioni incontrollate e attirate su di voi tutta la potenza necessaria a cambiare il corso delle cose. Volendo concedere la totale buona fede e le migliori intenzioni verso i più deboli, ai rappresentanti di questo movimento diciamo che la sola difesa della Costituzione e l’uso corretto degli istituti democratici - ammesso che ciò sia possibile - non sono sufficienti a difendere i più deboli dai poteri forti, in generale, e in questa fase di crisi acuta, in particolare.

    Occorre una straordinaria forza d’urto che è data solo da un generale movimento di massa purificatore che prenda in carico la sconfitta dei poteri forti, delle banche, delle grandi società immobiliari e di assicurazione, della Fiat, dei monopoli dell’informazione e delle cooperative ecc. Lo diciamo anche perché i poteri forti funzionano come spirale assorbente nei confronti di tanti comuni mortali che preferiscono fare l’anticamera e sperare piuttosto che lottare; l’inverso di quanto ci sentiamo di indicare da veri comunisti. La posizione del M5s si colloca a metà strada, una strada chiusa e senza sbocchi. Un’illusione che anche le grandi masse devono percorrere e hanno cominciato a farlo anche perché la crisi non consente in alcun modo una stabilità del sistema.

   A questo punto, da comunisti, vi mettiamo in guardia: la vostra forza potrebbe divenire estrema debolezza se non fa leva sui movimenti di massa che a un certo punto inevitabilmente si scateneranno e vi chiederanno di non voltar loro le spalle (ne sanno qualcosa in Grecia). Noi stiamo oggi nei Comitati per il NO per il referendum contro le riforme istituzionali e staremo con loro nelle piazze e voi sarete chiamati a decidere ben oltre il voto. 

    Staremmo con le masse se vi dovessero difendere contro le manovre sporche dei poteri forti che non vi risparmierebbero nessun tipo di provocazione. Nessuno è in grado di immaginare cosa sarebbero capaci lor signori pur di mantenersi in vita con i loro privilegi contro la stragrande maggioranza della popolazione.

   Quanto al «Noi», cioè al nostro specifico campo ideale, è bene dirci che il comunismo si ripresenta con caratteristiche diverse rispetto al passato: non più puntando su un soggetto definito come la classe operaia, secondo l’ipotesi del Manifesto di Marx-Engels, ma come movimento generale prodotto dalla crisi generale del modo di produzione capitalistico. Necessariamente esso è e sarà caotico, frastagliato, eterogeneo e così via. Sono le classi borghesi che temono la fine del modo di produzione capitalistico. E’ morto dunque il comunismo? No, si è dimostrata non giusta sul piano strategico l’ipotesi che faceva perno sulla classe operaia che era cresciuta con la crescita dell’accumulazione capitalistica in Occidente. Per noi si apre una straordinaria prospettiva a patto di saperla leggere.

 

Michele Castaldo

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Da Marx a Marx
Da Marx a Marx

Autore Michele Castaldo

MODO DI PRODUZIONE E LIBERO ARBITRIO

Marx e il Torto delle Cose

LA CRISI DI UNA TEORIA RIVOLUZIONARIA

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